domenica 9 ottobre 2016

LA GRAMMATICA È GIÀ SCRITTA NEL CERVELLO!

È come andare in bicicletta se non ci si  allena si perde l'equilibrio!
Individuati gli schemi di attività neurale che indicano le elaborazioni lessicali, grammaticali e di articolazione del linguaggio all'interno dell'area di Broca!

Uno studio effettuato presso la School of Medicine dell’Università della California a San Diego fornisce un interessante quadro di alcuni meccanismi di funzionamento della mente umana per quanto concerne l’elaborazione del linguaggio.

"Due profondi misteri permeano ancora le nostre conoscenze in questo campo: il primo riguarda il modo in cui i processi cognitivi superiori come il linguaggio sono integrati nel cervello; il secondo la natura di una delle regioni meglio conosciute della corteccia cerebrale: l'area del Broca”, ha esordito Ned T. Sahin, ricercatore del Dipartimento di psicologia della Harvard University spiegando i risultati della ricerca ora pubblicati sulla rivista “Science”.

Poiché il linguaggio complesso è esclusivo degli esseri umani, è assai difficile studiare i meccanismi neurali che ne sono alla base con procedure che siano al contempo efficaci e non invasive. I metodi di imaging del cervello come la risonanza magnetica funzionale, spesso utilizzati per rilevare l’attività neurale connessa a diversi compiti o competenze, rilevano l'attivazione di migliaia di milioni di neuroni insieme su un periodo di tempo piuttosto lungo.

Per documentare in che modo il cervello umano elabora la grammatica e produce le parole, i ricercatori hanno utilizzato una procedura denominata elettrofisiologia intracranica (Intra-Cranial Electrophysiology, o ICE), che ha consentito di distinguere spazialmente l'attività cerebrale collegata al linguaggio con un’accuratezza spaziale di circa un millimetro e temporale di circa un millisecondo.

"Abbiamo mostrato che i distinti processi linguistici sono elaborati all'interno di piccole regioni dell'area del Broca, separati nel tempo e parzialmente sovrapposti nello spazio”, ha continuato Sahin.

Più in particolare, i ricercatori hanno trovato gli schemi di attività neurale che indicano le elaborazioni lessicali, grammaticali e di articolazione del linguaggio, rispettivamente, circa 200, 320 e 450 millisecondi dopo la presentazione di una parola target. Inoltre, gli schemi di attivazione sono risultati identici per sostantivi e verbi e simili tra diverse persone.

"La prima evidenza che parti del cervello possono corrispondere a parti della mente fu la scoperta che i pazienti con un danno all'area del Broca erano incapaci di parlare ma potevano ugualmente pensare. A 150 anni dalla sua scoperta, il progresso nella comprensione del modo in cui l'area del Broca contribuisce al linguaggio è sconcertante”, ha spiegato Eric Halgren, professore dell'UCSD.

"Questi risultati suggeriscono che l'area del Broca consista in realtà di diverse parti sovrapposte che svolgono distinti passi di elaborazione in una 'coreografia' attentamente calibrata, una danza che potrebbe essere rimasta non rivelabile a causa del livello di risoluzione dei precedenti metodi.” credits Le scienze

mercoledì 5 ottobre 2016

SOSTEGNO ATTENTI ALLE DELEGHE!

SOSTEGNO ATTENTI ALLE DELEGHE!

Per operare altri tagli futuri sulla scuola si utilizza anche il metodo di fare delle analisi e dei rapporti, che possano rappresentare l’anticamera della proposta, della riforma e del cambiamento, che, guarda caso, è sempre basata su tagli e risparmi di spesa, e mai su risorse economiche aggiuntive.
Per esempio da un rapporto 2011  realizzato dalla Fondazione Agnelli, dall’Associazione Treellle e dalla Caritas Italiana, si è analizzato che il modello italiano dell’integrazione scolastica degli alunni diversamente abili o bisognosi di percorsi speciali ha fallito i suoi obiettivi, perché si baserebbe sul binomio imprescindibile studente disabile-insegnante di sostegno. Di qui la proposta, messa in atto in Trentino Alto Adige dal prof. Dario Ianes,  di convogliare quasi tutti i docenti di sostegno nell’insegnamento delle discipline e di destinarne alcuni alla formazione di gruppi consulenza per le scuole.
Si sta quindi pensando di abolire la figura del docente di sostegno specializzato, così come è quella che conosciamo e che sappiamo svolgere un prezioso lavoro nelle nostre scuole? Si è proprio così!
Si vorrebbe, attraverso una strana teoria evolutiva del docente di sostegno, sottrarre, agli alunni in stato di evidente svantaggio, il sostegno di potere avere un docente specializzato vicino a loro. Eppure il nostro sistema di sostegno scolastico e il nostro sistema di specializzazione sul sostegno sono un modello didattico e d’integrazione culturale che ci viene invidiato da tutti, forse costoso ma pienamente funzionale. Allora perché cambiarlo, perché fare evolvere la figura del docente di sostegno che svolge un servizio d’eccellenza con risultati ed obiettivi apprezzabili? Il sospetto che le ragioni della teoria evolutiva dei docenti di sostegno siano puramente economiche, e che tutto questo rappresenti l’anticamera dell’abolizione di questa figura, è un’opinione che sono in molti a pensare.
C’è chi pensa anche che l’anello mancante di questa strana teoria evolutiva del docente di sostegno, sia rappresentata dalla deformazione che stanno subendo i Bes nel nostro sistema scolastico. Quale sarebbe questa deformazione? I Bes, secondo il parere di molti docenti di sostegno, rappresentano la curvatura didattica tipica dell’insegnamento di sostegno, e quindi si vorrebbero obbligare tutti i docenti curricolari a divenire in modo evolutivo e del tutto innaturale anche docenti di sostegno.
Il rischio che si corre è quello che con l’alibi della scadente integrazione degli alunni diversamente abili, rilevata nel rapporto 2011, si voglia cogliere l’occasione per abolire delle figure specializzate al rapporto con tali alunni, sostituendoli nel tempo con docenti tutto fare, che mentre svolgono le loro lezioni di italiano, latino, matematica, fisica o inglese si occupano contemporaneamente dell’alunno autistico o paraplegico. Si tratta veramente di una strana teoria evolutiva che se non dovesse essere ben ponderata rischierebbe, veramente e senza alcun alibi, di riportarci all’anno zero per quanto riguarda l’integrazione e l’inclusione. Credit Tecnica della scuola L. Ficara

domenica 11 settembre 2016

DISLESSIA E COMUNICAZIONE CEREBRALE

Una scarsa comunicazione cerebrale all'origine della dislessia


Una scarsa comunicazione tra diverse are cerebrali deputate all'elaborazione del linguaggio sarebbe all'origine della dislessia. Lo afferma un nuovo studio basato su una serie di test linguistici su comprensione e ripetizione di fonemi, che smentisce l'ipotesi che il disturbo sia causato da una incapacità di sviluppare precise rappresentazioni delle unità fonetiche elementari tipiche di una lingua.

Le persone affette da dislessia, che rappresentano circa il 10 per cento della popolazione, hanno difficoltà di lettura, di elaborazione del linguaggio parlato e in definitiva di apprendimento, ma l'origine del disturbo non è nella difficoltà a codificare le informazioni fonetiche quanto piuttosto nel recuperarle una volta memorizzate. È questa la conclusione di uno studio pubblicato su “Science” a firma di Bart Boets dell’Università cattolica di Leuven, in Belgio.

Durante il processo di acquisizione di una nuova lingua ogni individuo deve imparare anzitutto l’insieme delle unità basilari di suono che essa utilizza, denominati fonemi. Il passo successivo consiste nell’imparare a raggruppare tutti i diversi modi in cui un dato fonema può essere pronunciato, distinguendo tra quelli molto simili, per esempio la “b” o la “d”.

Negli ultimi decenni, vari studi hanno portato a ipotizzare che le persone con dislessia non sviluppassero precise rappresentazioni fonetiche e che quindi non fossero in grado di riconoscere le  distinzioni più fini di una lingua. In questo modello, i dislessici avrebbero in sostanza una rappresentazione distorta dei fonemi, come se avessero appreso le parole da un vocabolario dove alcune macchie rendono indistinta l’ortografia delle parole.

Recentemente, alcuni ricercatori hanno sviluppato un modello diverso della dislessia, in cui le rappresentazioni fonetiche sarebbero intatte. A non funzionare correttamente sarebbe la capacità del cervello di accedere a esse.

Boets e colleghi hanno messo a confronto i due modelli utilizzando una tecnica di risonanza magnetica funzionale (fMRI) per catturare immagini in 3D dell’attività cerebrale di 23 soggetti adulti con dislessia e 22 soggetti del gruppo di controllo
mentre udivano la pronuncia di diversi suoni.

A ciascun partecipante era richiesto di ascoltare alcune parole senza senso, come successioni di sillabe come per esempio “ba-ba-ba-ba” seguite dalle stesse parole modificate in una consonante o in una vocale, come per esempio “da-da-da-da”, e di riferire quale cambiamento avessero percepito. Questo semplice test, secondo gli autori, permette di valutare la correttezza delle rappresentazioni dei fonemi da parte dei soggetti.

Analizzando i risultati, è emerso che l’accuratezza delle risposte dei soggetti dislessici non differiva sostanzialmente da quella dei soggetti normali, e lo stesso accadeva per i segnali neurali rilevati con la fMRI, indicando, secondo i ricercatori, che la loro rappresentazione fonetica è intatta. La caratteristica delle risposte influenzate dalla dislessia è invece la velocità della risposta, ritardata in media del 50 per cento rispetto ai soggetti normali.

Analizzando l’attività complessiva del cervello, gli autori hanno documentato una minore coordinazione del funzionamento di 13 aree cerebrali legate all’elaborazione dei fonemi di base con l’area di Broca, responsabile dell’elaborazione di alto livello del llnguaggio. Un’analisi più raffinata dei segnali rilevati ha mostrato che più era debole il coordinamento delle aree cerebrali, più erano lente le risposte dei soggetti dislessici.

La conclusione di Boets è colleghi è quindi che la dislessia rifletta una scarsa capacità di accedere all’informaizne sui fonemi invece che a una scarsità d’informazioni sui fonemi stessi. Credit Le Scienze

mercoledì 7 settembre 2016

Ippocampo, apprendimento e memoria

Ippocampo,  apprendimento e memoria

L'ippocampo è l'area del cervello che comanda il rilascio di ormoni che ci aiutano ad affrontare lo stress: aumentano il battito cardiaco e favoriscono l'adattamento. Ma l'ippocampo è anche centrale in due funzioni fondamentali del cervello: l'apprendimento e la memoria. Un ippocampo più grande si traduce quindi in migliori prestazioni scolastiche.

L'ippocampo nel cervello dei bambini a cui i genitori dedicano maggiori attenzioni è più grande rispetto a quello dei figli meno seguiti. L'intervista a Anna #Oliverio Ferraris: la primissima infanzia è un'età cruciale, ma il cervello continua a modificarsi fino a 20 anni.

I bimbi in età scolare le cui madri li hanno accuditi con affetto nella primissima infanzia, portano i segni visibili di queste attenzioni nel proprio cervello: il loro ippocampo è più grande rispetto a quello dei coetanei. L'ippocampo è un'area del cervello che ha un ruolo cruciale nella memoria e nell'apprendimento, ma anche nella gestione dello stress.

Che il rapporto con i genitori prime fasi di vita del bambino sia cruciale per uno sviluppo emotivo e cognitivo armonioso già si sapeva. Quello che si è riusciti a fare per la prima volta, in uno studio apparso sull'edizione online di Proceedings of the National Academy of Sciences e condotto da un team di psicologi infantili e neuroscienziati della Washington University School of Medicine di St. Louis , è quantificare il beneficio sul cervello dei piccoli dell'amore e delle cure ricevute.

#Joan Luby , professore di psichiatria infantile, e i coautori della ricerca hanno prima di tutto dovuto distinguere, in maniera sufficientemente oggettiva, i genitori più affettuosi e attenti da quelli che lo erano meno. Lo studio ha preso le mosse una decina di anni fa, quando Luby e colleghi hanno esaminato le interazioni tra bambini di età compresa tra 3 e 6 anni, alcuni dei quali con sintomi di depressione o con altri disturbi mentali, e un genitore, quasi sempre la mamma.

Mentre la mamma doveva eseguire un compito il bambino doveva aspettare. Come premio per l'attesa avrebbe potuto aprire un pacco regalo dall'aspetto attraente. La valutazione su quanto e come il genitore fosse in grado di sostenere e confortare il bambino in questa situazione stressante veniva fatta da un gruppo di osservatori esterni che non conosceva nulla né delle condizioni di salute del bambino né del temperamento del genitore.

Anni dopo 92 di quei bambini, ora di età compresa tra 7 e 10 anni, sono stati sottoposti a una tac cerebrale, che consente di avere un'immagine chiara del cervello e di misurare la grandezza dell'ippocampo. Quello che è emerso è che i bambini che non avevano sofferto di forme depressive e che erano allevati con maggiori attenzioni avevano un ippocampo del 10% più grande rispetto ai figli di madri meno affettuose.

Secondo Luby mentre nei bambini depressi era atteso un risultato del genere, perché il volume dell'ippocampo risulta più piccolo anche negli adulti con depressione, la vera sorpresa è nella differenza riscontrata tra bambini sani e legata esclusivamente alle cure parentali.

Perché questo risultato è così importante?

L'ippocampo è l'area del cervello che comanda il rilascio di ormoni che ci aiutano ad affrontare lo stress: aumentano il battito cardiaco e favoriscono l'adattamento. Ma l'ippocampo è anche centrale in due funzioni fondamentali del cervello: l'apprendimento e la memoria. Un ippocampo più grande si traduce quindi in migliori prestazioni scolastiche.

Cosa deve fare un genitore per assicurare al proprio figlio lo sviluppo migliore?

Come si declina, insomma, questa affettività che sembra essere così importante per lo sviluppo cerebrale del bambino? Risponde Anna Oliverio Ferraris , docente di Psicologia Evolutiva all'Università La Sapienza di Roma.

Ci sono altri studi recenti che dimostrano che i bambini maltrattati hanno un funzionamento cerebrale diverso, che può  avere effetti anche in adolescenza. Mi pare che questa ricerca vada nella stessa direzione. L'età prescolare è cruciale certo, ma non solo nel rapporto del bambino con la mamma, bensì con tutte le persone che stanno intorno al bambino e lo accudiscono: madre, padre, i nonni.

Cosa devono garantirgli queste figure?

Quello di cui un bambino ha bisogno: un clima caldo, affettivo, stimolante, partecipativo, dove il bambino sente che è importante per chi sta intorno a lui. Via via che cresce bisogna rispondere alle sue domande, dargli ascolto. Ma attenzione a evitare l'iperprotezione e, ovviamente, ogni forma di maltrattamento.

La violenza ma anche l'indifferenza?

Esistono forme più o meno gravi di maltrattamento, dirette o indirette. La violenza tra genitori è una forma di maltrattmento indiretta che mette il bambino in uno stato di allerta, lo spinge a non fidarsi degli adulti che lo circondano. Ma anche la trascuratezza è una forma di maltrattamento: abbandonare un bambino tre ore al giorno di fronte al televisore, per esempio. Un bambino ha bisogno di fare esperienze di prima mano, di muoversi, di giocare, il gioco è la sua vita e la sua terapia. La carenza di giochi spontanei e di movimento che caratterizza molti bambini di oggi, che fanno una vita troppo sedentaria, è una forma di trascuratezza dell'intera società.

Altri comportamenti da evitare?

Dobbiamo ricordarci che i bambini non sono adulti in miniatura. Il genitore che non gli parla, che va sempre di fretta e si limita  risolvere i problemi pratici ma non ha momenti per starci insieme, raccontargli delle storie, commette un errore. Quando i bambini sono piccoli bisogna trovare il tempo. Se una madre lavora è bene che ci sia anche un padre accudente, che dedichi del tempo al bambino.

Altre figure, come la baby sitter, non possono avere un ruolo?

Certo, ma siccome la mamma e il papà fanno comunque parte della sua vita, il bambino ha bisogno di sentire la loro attenzione perché lo valorizza e lo fa sentire importante rispetto agli altri. Il bambino sa di esser debole nei confronti della società, ma se è amato si sente forte.

E con i capricci come la mettiamo?

A volte per paura di sembrare indifferenti i genitori rischiano l'opposto: cedere su tutto.
Oltre all'affetto è altettanto importante che ci siano regole e coerenza, ai bambini fa molto bene la routine. Vanno soddisfatti i bisogni fondamentali: affetto, calore, cibo. I desideri possono essere soddisfatti qualche volta o rimandati nel tempo. Il bambino se c'è il clima giusto lo accetta. Magari protesta di fronte a certe regole ma gli dà sicurezza sentire che i genitori sanno cosa è bene per lui e sono coerenti.

Fino a che età le cure dei genitori hanno un effetto diretto sullo sviluppo dei figli?

Il cervello continua a crescere fino a 20 anni, probabilmente un recupero è sempre possibile, perché per tutto questo tempo c'è molta plasticità, il cervello è ancora suscettibile di cambiamenti.


venerdì 2 settembre 2016

CERVELLO E MAPPE FUNZIONALI

Come e dove il cervello categorizza oggetti e azioni

Le mappe funzionali del cervello rispondono a quelle concettuali della didattica! La nostra mente elabora migliaia di concetti, ma solo per alcuni – come le facce e i movimenti del corpo - esiste una specifica area cerebrale dedicata. La rappresentazione di tutti gli altri si estende sull'intera corteccia, con una distribuzione spaziale che riflette la gerarchia di relazioni semantiche che ciascuno di essi intrattiene con concetti affini

Una prima mappa spaziale della rappresentazione semantica di oggetti e azioni sulla superficie del cervello è stata realizzata da un gruppo di ricercatori dell'Università di Berkeley, in California, che spiegano come sono riusciti a ricostruirla in un articolo pubblicato sulla rivista “Neuron”.

Vari studi hanno indicato che alcune categorie di oggetti e di azioni sono rappresentate in specifiche aree cerebrali. Fra questi vi sono per esempio le facce, le parti del corpo e i loro movimenti.

Tuttavia, gli esseri umani percepiscono migliaia di categorie di oggetti e azioni e, "date le dimensioni ridotte del cervello umano - dice Alex Huth primo autore dell'articolo - sembra piuttosto irragionevole aspettarsi che ogni categoria sia rappresentata in una zona del cervello diversa". Un modo efficace, e plausibile, per la rappresentazione cerebrale di categorie di oggetti e di azioni – hanno quindi ipotizzato gli autori - potrebbe essere organizzarle in uno spazio semantico la cui topologia riflette la somiglianza semantica tra le categorie.

Per verificare questa ipotesi, hanno usato i dati sui livelli di attivazione del cervello (o per la precisione di singole piccole unità volumetriche, o voxel, della corteccia cerebrale) ottenuti applicando la Bold fMRI (che permette di valutare il consumo di ossigeno dei neuroni delle diverse aree) a un gruppo di soggetti mentre osservavano diverse ore di filmati contenenti numerose categorie di oggetti e di azioni che si presentano frequentemente nelle attività quotidiane.

I filmati sono stati poi analizzati dai ricercatori che vi hanno identificato 1364 categorie di oggetti e azioni di uso comune, di cui hanno definito le eventuali relazioni semantiche ricorrendo alla classificazione riportata dal lessico di WordNet. WordNet è un ampio database in cui nomi, verbi, aggettivi e avverbi sono raggruppati sulla base dell'affinità di significato affine, ma fra cui è possibile stabilire delle “gerarchie” concettuali (per esempio, una scena contenente un cane deve contenere un quadrupede e, analogamente, se qualcuno russa deve anche dormire). Le relazioni gerarchiche di WordNet hanno permesso di dedurre la presenza di altre 341 categorie di ordine superiore a quelle già individuate dai ricercatori.

A questo punto, attraverso una serie di procedimenti statistici, i ricercatori sono riusciti a definire un modello che indica i “pesi” che caratterizzano la risposta di ciascun voxel della corteccia cerebrale a ognuna delle 1705 categorie.

In questo modo i ricercatori hanno dimostrato che le categorie sono rappresentate, secondo specifici gradienti, su tutta la superficie della corteccia del cervello, sia visiva che non visiva, ma in modo tale che le categorie simili si trovino una accanto all'altra. In particolare, i ricercatori hanno trovato che questa organizzazione era comune a tutti i volontari testati.

"La scoperta delle caratteristiche spaziali che il cervello usa per rappresentare le informazioni ci aiuta a ricostruire le mappe funzionali sulla superficie corticale. Probabilmente il cervello usa meccanismi analoghi per mappare altri tipi di informazioni su tutta la superficie corticale, quindi il nostro approccio dovrebbe essere ampiamente applicabile anche ad altri settori di neuroscienze cognitive", ha osservato Gallant. Credit Le Scienze 

1~In A, struttura delle relazioni semantiche fra alcuni dei 1705 concetti considerati dai ricercatori I collegamenti indicano un rapporto di appartenenza: per esempio, un atleta è una persona. Ogni indicatore rappresenta un nome (cerchio) o verbo (quadrato). In B, il codice colore in 3D usato per rappresentare l'intensità della risposta dei voxel. In C, esempio di una risposta prevista dal modello degli autori di ciascun voxel sulla base delle relazioni semantiche che vi sono fra i diversi concetti. (Cortesia A.G.Huth / PNAS)


2~La proiezione  sulla corteccia cerebrale della distribuzione di varie categorie concettuali elaborata sulla base delle risposte fMRI dei singoli voxel in tre differenti soggetti. (Cortesia A. G: Huth et al. / Neuron)

domenica 21 agosto 2016

RICORDI, CINESTETICA ED IPPOCAMPO


L'apprendimento non deve essere esclusivamente digitale ma mediato da esperienze e attività corporee. La memoria cinestetica rappresenta la base per immagazzinare ricordi nella memoria a lungo termine!

Per immagazzinare correttamente nuovi ricordi è necessario avere una piena percezione del proprio corpo: se viene a mancare, per esempio se gli input sensoriali sono filtrati dalla realtà virtuale, la memoria diventa frammentaria. È questa la conclusione di uno studio che apre la strada a una migliore comprensione delle amnesie che si osservano in molti disturbi psichiatrici in cui i pazienti manifestano fenomeni dissociativi

Percezione corporea e capacità di ricordare sono strettamente correlate: per immagazzinare i ricordi delle esperienze che viviamo in prima persona, che costituiscono la cosiddetta memoria episodica, dobbiamo sentire di “essere nel nostro corpo”. È quanto è emerso da una nuova ricerca pubblicata sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” a firma di un gruppo di ricercatori del Karolinska Institut e dell'Università di Umeå, in Svezia. Il risultato potrebbe chiarire per la prima volta perché alcuni pazienti psichiatrici che riferiscono di sentirsi fuori dal proprio corpo manifestano anche una memoria episodica molto frammentaria.

Non c'è memoria episodica senza percezione del corpo

Lo studio è stato condotto coinvolgendo 84 studenti in quattro falsi esami, in cui un attore impersonava un falso professore del Karolinska dalla personalità spiccatamente eccentrica, per rendere l'esperienza particolarmente memorabile. In due delle quattro interrogazioni gli studenti erano seduti normalmente davanti al "professore" , mentre nelle altre due percepivano il professore e l'ambiente tramite un casco per la realtà virtuale. Le stimolazioni sensoriali, in questo secondo caso, erano ideate in modo da far perdere al soggetto la percezione del proprio corpo.

Una settimana dopo, i volontari sono stati sottoposti a un test di memoria, in cui veniva chiesto loro di ricostruire l'esperienza dell'esame, fornendo dettagli sugli eventi e sulla loro successione temporale, nonché sulle sensazioni percepite in quel momento.

Durante il test, i soggetti venivano sottoposti a scansioni di risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica di imaging cerebrale che consente di evidenziare l'attivazione delle diverse zone del cervello mentre il soggetto è impegnato in qualche attività.

È così emerso che gli studenti interrogati “fuori dal corpo”, attraverso la realtà virtuale, ricordavano molto peggio l'esperienza di quelli interrogati “nel corpo”.

La risonanza magnetica ha rivelato una differenza fondamentale di attivazione nell'ippocampo, una regione cerebrale fondamentale per l'elaborazione della memoria episodica. “Quando cercavano di ricordare ciò che era successo durante le interrogazioni in realtà virtuale, l'attività dell'ippocampo si annullava”, spiega Henrik Ehrsson, uno degli autori della ricerca. “Ma si poteva osservare un'attività nella corteccia del lobo frontale, a indicare che i ragazzi stavano effettivamente facendo uno sforzo per ricordare”.

L'ipotesi conclusiva dei ricercatori è che esiste una stretta correlazione tra esperienza corporea e memoria: il nostro cervello crea l'esperienza del corpo nello spazio raccogliendo le informazioni che provengono da tutti i sensi. L'ippocampo poi collega tutte le informazioni che si trovano nella corteccia cerebrale in una memoria unificata, destinata all'immagazzinamento a lungo termine. Durante l'esperienza “fuori dal corpo”, questo processo d'immagazzinamento è disturbato, con il risultato che il cervello crea memorie frammentarie.

“Riteniamo che la scoperta possa essere importante per le ricerche sulle amnesie che si osservano in molti disturbi psichiatrici come il disturbo da stress post-traumatico, i disturbi di personalità borderline e alcune psicosi, in cui i pazienti manifestano fenomeni dissociativi”, ha concluso Loretxu Bergouignan, un altro degli autori. Credit Le Scienze

1~ Senza una percezione del proprio corpo, non si attiva l'ippocampo, la regione cerebrale dove si strutturano nuove memorie (Science Photo Library)

2~ Una fase dei test condotti durante lo studio

domenica 14 agosto 2016

IL CORPO CALLOSO INCIDE SULLE SINDROMI ADHD, AUTISMO E OCD

Autismo, disturbo ossessivo compulsivo e deficit di attenzione possono condividere dei marcatori nel cervello. Tutte e tre le malattie sono legate a difetti nel fascio nervoso che collegagli emisferi cerebrali. 


Le manifestazioni dell'autismo hanno radici genetiche con il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) e disturbo da deficit di attenzione (ADHD). Le tre condizioni hanno caratteristiche in comune, come ad esempio l'impulsività. I nuovi risultati suggeriscono che essi condividono anche una impronta specifica del cervello.

Il primo confronto dell'architettura del cervello attraverso queste condizioni ha rilevato che tutte le affezioni sono associate con interruzioni nella struttura del corpo calloso . Il corpo calloso è un fascio di fibre nervose che collega gli emisferi destro e sinistro del cervello. I risultati sono apparsi il 1 luglio per l'American Journal of Psychiatry.

I medici possono avere difficoltà a distinguere l'autismo dalla ADHD sulla base di soli sintomi. Ma se le condizioni sono caratterizzate da problemi strutturali simili nel cervello, gli stessi interventi potrebbero risultare utili, non importa quale sia la diagnosi, dice la ricercatrice Stephanie Ameis, assistente professore di psichiatria presso l'Università di Toronto.

Gli aspetti peculiari di ogni condizione potrebbero derivare da altri attributi cerebrali, come ad esempio le differenze nelle connessioni tra i neuroni, dice Thomas Frazier , direttore della ricerca presso la Cleveland Clinic Foundation. "Una conclusione ragionevole è che l'autismo e ADHD non differiscono in modo strutturale, ma potrebbero differire in termini di connettività", spiega Frazier, che non è stato coinvolto nello studio.


I COLLEGAMENTI INTERROTTI:


Il team di Ameis ha esaminato il cervello di 71 bambini con autismo, 31 con ADHD, 36 con disturbo ossessivo compulsivo e 62 bambini tipici che utilizzano l'imaging del tensore di diffusione . Questo metodo fornisce un quadro della materia bianca del cervello, le fibre lunghe che collegano le cellule nervose, misurando la diffusione di liquidi attraverso queste fibre.

I ricercatori hanno visto interruzioni diffuse nella struttura della materia bianca tra i bambini con una delle tre condizioni. Hanno trovato, in ogni caso, un minor numero di alterazioni nei bambini con disturbo ossessivo compulsivo rispetto a quelli con autismo o ADHD.

Questa scoperta può riguardare l'insorgenza precoce dell'autismo e ADHD. Ameis sostiene che interruzioni della sostanza bianca possono produrre problemi connessi con OCD durante l'infanzia.

I genitori hanno anche valutato l'attenzione dei loro figli e le abilità di comunicazione sociale, i comportamenti ossessivi e la capacità di svolgere le attività quotidiane. I bambini che non hanno una buona indipendenza nelle attività quotidiane, hanno le interruzioni più significative della sostanza bianca. I ricercatori non hanno trovato alcuna connessione tra la struttura del cervello e gli altri comportamenti.

"Non vi è un'associazione tra ciò che il cervello sembra, in termini di perdita di valore, e come si è alterata nella vita quotidiana", dice Ameis.


TRACCIARE TRATTI:


I ricercatori hanno anche verificato se vi fossero problemi particolari di connessione tra materia bianca. L'unico tratto che guarda allo stesso modo tutti e tre i gruppi è il corpo calloso, il che suggerisce che le interruzioni di questo tratto possono essere alla base delle caratteristiche che le condizioni hanno in comune.

"La cosa interessante è che il corpo calloso è uno dei primi tratti per lo sviluppo ed è il più grande snodo  comunicativo nel cervello. Quindi, sostiene Ameis,  potrebbe essere un tratto che crea vulnerabilità per queste condizioni dello sviluppo neurologico ".

I risultati sono ancora preliminari, tuttavia, i ricercatori hanno rilevato cambiamenti in una sola piccola parte del corpo calloso, quindi non è chiaro se le aberrazioni che vedevano sono clinicamente significative dice Ruth Carper , professore assistente di ricerca di neuroscienze presso l'Università della California, San Diego, che non era coinvolta nello studio.

E 'anche possibile che le differenze tra i tre gruppi derivano dal movimento nello scanner, sostiene Carper, un problema comune durante la scansione di bambini con queste condizioni.

I ricercatori dicono che i risultati sono un primo passo verso le somiglianze e le differenze tra le tre condizioni. credit Scientific American


venerdì 12 agosto 2016

Il riconsolidamento della memoria

IL RICONSOLIDAMENTO DELLA MEMORIA

Dimenticare un evento della propria vita potrebbe non essere un processo definitivo: lo dimostra un nuovo studio sui topi di laboratorio, in cui gli sperimentatori sono riusciti a invertire l'amnesia totale di un evento doloroso. Il risultato è un passo avanti significativo per la comprensione dei meccanismi della memoria e potrebbe avere in futuro un impatto significativo per alcuni disturbi psichiatrici


I ricordi autobiografici che non riusciamo più a richiamare potrebbero non essere perduti per sempre, ma nascosti da qualche parte nel nostro cervello. È la suggestiva ipotesi che emerge da un nuovo studio sperimentale sui processi di consolidamento e riconsolidamento della memoria condotto sui topi da un gruppo di ricercatori dell'Università di Cardiff, nel Regno Unito, guidati da Kerrie Thomas, e illustrato sulle pagine di “Nature Communications”.

Il consolidamento della memoria è un processo che può durare da alcuni minuti ad alcune ore, in cui avviene la conversione di una traccia mnestica da una forma instabile a una forma stabile, che può così essere richiamata anche a distanza di giorni oppure di anni. Questo richiamo successivo, come dimostrato da alcuni studi, è un processo dinamico, perché riporta il ricordo consolidato nella sua forma instabile, che necessita di un riconsolidamento.

A questo riguardo, un risultato rilevante, emerso dagli studi sui topi di laboratorio, è che se interviene qualche elemento a interferire con il riconsolidamento, un ricordo può essere perduto per sempre. Questa amnesia permanente è denominata blocco del riconsolidamento.

Ricordi perduti ma non per sempre

Con i topi di laboratorio, il fenomeno del blocco del riconsolidamento si evidenzia con un tipico esperimento di condizionamento classico, o pavloviano, in cui l'animale viene esposto a uno stimolo neutro (condizionato), per esempio un suono, associato a uno stimolo doloroso (incondizionato). Dopo diverse ripetizioni del condizionamento, il roditore mostra di avere paura, manifestando il caratteristico “congelamento sul posto”, ogniqualvolta percepisce lo stimolo condizionato.

Se si silenziano i geni Zif268 o Arc nella regione cerebrale dell'ippocampo
dei topi e si inibisce così la sintesi delle rispettive proteine, implicate nei processi di consolidamento e riconsolidamento, è sufficiente richiamare un ricordo, esponendo per esempio i topi allo stimolo condizionato, per far sì che lo stesso vada perduto per per sempre: i topi, in sostanza, non hanno più paura dello stimolo condizionato.

Ora però i ricercatori di Cardiff sembrano smentire almeno in parte questo modello, dimostrando che la paura dello stimolo condizionato, nelle stesse condizioni sperimentali, può essere ripristinata, ricorrendo a un altro fenomeno caratteristico del condizionamento classico: l'estinzione della paura. Se infatti gli animali condizionati vengono esposti ripetutamente al solo stimolo condizionato - in pratica, al solo suono senza stimolo doloroso successivo – dopo un certo tempo non mostrano più alcun timore.

Thomas e colleghi hanno indotto nei topi il blocco del riconsolidamento mediante il silenziamento genico, e li hanno poi esposti al solo stimolo condizionato, che ha avuto l'effetto di ripristinare la risposta comportamentale condizionata, cioè la paura.

“Le precedenti ricerche in questo campo hanno scoperto che il richiamo di un ricordo è un processo sensibile alle interferenze, che in alcuni casi portano al completo oblio”, ha spiegato Thomas. “Il nostro studio ora ha dimostrato che il ricordo non è perduto completamente e può essere recuperato".

Il risultato dello studio ha diverse conseguenze, sia sul piano teorico sia sul piano pratico. In primo luogo, infatti, dimostra che i meccanismi molecolari del blocco del riconsolidamento interferiscono con quelli dell'estinzione, smentendo l'ipotesi che il riconsolidamento sia un processo di memoria a sé stante. In secondo luogo, contribuisce a chiarire alcuni meccanismi fondamentali della memoria che potrebbero essere utili a fini terapeutici in soggetti colpiti da amnesia.

“Siamo ancora lontani dal poter aiutare le persone con problemi di memoria, ma questi modelli animali riproducono accuratamente ciò che avviene nel cervello umano, suggerendo che le nostre memorie autobiografiche, quando sembrano perdute definitivamente, potrebbero essere invece aggregate in modo diverso ad altri ricordi”, ha concluso Thomas. “Questa ipotesi apre interessanti prospettive per disturbi psichiatrici come la sindrome post traumatica da stress, la schizofrenia e la psicosi, in cui i problemi di memoria hanno un ruolo importante”. Credit Le Scienze

martedì 9 agosto 2016

IPPOCAMPO, AUTISMO, SCHIZOFRENIA ED EPILESSIA

IPPOCAMPO, AUTISMO, SCHIZOFRENIA ED EPILESSIA

Un network di geni nelle cellule dell'ippocampo ha una notevole influenza sulle capacità cognitive generali, e circa un terzo dei suoi geni, se mutato, può dare origine a diversi disturbi del neurosviluppo. La correlazione è stata dimostrata per la prima volta in uno studio condotto su topi e su esseri umani che getta le basi per una migliore comprensione di disturbi quali l'autismo, la schizofrenia e l'epilessia.

C'è una convergenza genetica tra cognizione e disturbi del neurosviluppo: l'ha dimostrato, per la prima volta, uno studio condotto dai ricercatori della Duke-NUS Medical School (Duke-NUS) e dell'Imperial College di Londra (ICL), ora pubblicato su “Nature Neuroscience”. Anche se non si riesce ancora a spiegare questa correlazione, il risultato potrebbe aprire nuove prospettive per il trattamento di disturbi quali l'autismo, l'epilessia, la disabilità intellettiva e la schizofrenia, per i quali le risorse terapeutiche sono attualmente scarse.

Con il termine "cognizione" ci si riferisce a capacità quali la memoria, l'attenzione, la rapidità nell'elaborazione, il ragionamento e le funzioni esecutive. Le prestazioni in queste diverse capacità cambiano moltissimo tra individui, hanno un notevole grado di ereditabilità e sono poligeniche, cioè dipendono da diversi geni. Inoltre, si può fare una distinzione tra domini cognitivi, per esempio tra le cosiddette abilità cognitive cristallizzate, che dipendono dalla capacità di applicare conoscenze acquisite, e abilità cognitive fluide, come la capacità di stabilire nuove memorie o ragionare in situazioni nuove. Un dato importante è che queste apacità sono correlate positivamente: chi riesce bene in uno di questi domini, per esempio ha buona memoria, tende a farlo anche negli altri.

Una convergenza genetica tra cognizione e disturbi del neurosviluppo

Questi risultati, emersi dai test psicologici, sono in buon accordo con gli studi di genetica, che hanno dimostrato nei soggetti sani una sostanziale correlazione tra i geni legati alle diverse capacità cognitive. Nel caso dei soggetti con disturbi neurobiologici, invece, in cui i deficit delle funzioni cognitive rappresentano un insieme fondamentale di sintomi, i dati sono limitati.

Gli autori della ricerca hanno studiato, grazie a un nuovo sistema di analisi chiamato Systems Genetics, tutti i geni che sono attivi nelle cellule dell'ippocampo, una regione cerebrale che riveste un ruolo importante nella formazione e nel consolidamento della memoria. Hanno così identificando vari network di geni: uno in particolare, che coinvolge circa 150 geni, presente sia nei topi sia negli esseri umani, ha una notevole influenza sulle capacità cognitive generali.

Inoltre, hanno scoperto che questi geni sono già attivi appena dopo la nascita, il che rappresenta un indizio importante del loro ruolo nello sviluppo del sistema nervoso. Da un'analisi comparativa è poi emerso che circa un terzo dei geni del network è mutato in diversi disturbi del neurosviluppo.

Secondo gli autori, che hanno reso disponibili online i dati ottenuti, la prosecuzione naturale dello studio dovrebbe essere l'identificazione dei fattori di regolazione di questo network, che potrebbe consentire di sviluppare future strategie terapeutiche.

“I risultati del nostro studio sul cervello umano mostrano una correlazione tra geni legati alle capacità cognitive e geni legati a disturbi del neurosviluppo che finora non era mai stata evidenziata", ha spiegato Enrico Petretto, autore senior dell'articolo. “Riteniamo che studiare i network di geni nel cervello possa fornire indizi ulteriori circa le cause genetiche dei disturbi del neurosviluppo e delle malattie associate”.

lunedì 8 agosto 2016

Autismo, deficit cognitivi e schizofrenia

AUTISMO, DEFICIT COGNITIVI E SCHIZOFRENIA

Sono centinaia le mutazioni di geni che alterano il corretto funzionamento neuronale e che espongono al rischio di disturbi dello spettro autistico. Lo hanno confermato due nuovi studi basati sul sequenziamento genico di campioni prelevati da migliaia di soggetti autistici e loro familiari. Alcune mutazioni sono le stesse  identificate in soggetti con deficit cognitivi e schizofrenia.

Una serie di mutazioni genetiche che aumentano notevolmente il rischio di disturbi dello spettro autistico sono state identificate in due nuovi studi pubblicati su “Nature”.

I disturbi dello spettro autistico colpiscono una quota della popolazione generale variabile tra 3 e 6 individui su 10.000 e sono caratterizzati da una compromissione delle relazioni sociali, disturbi della comunicazione e comportamento stereotipato. Da decenni si cerca di completare il complesso mosaico delle mutazioni genetiche che determinano il rischio di insorgenza di questo disturbo. Finora, ne sono stati indentificati più di un centinaio: ciascuno di esse altera un particolare elemento che concorre al corretto sviluppo neurobiologico dell’individuo e della corretta funzionalità neurologica.

Le mutazioni genetiche a rischio autismo

Questi due ultimi studi hanno usato entrambi la tecnica di sequenziamento dell’esoma, cioè l’insieme dei geni che condificano per proteine, chiamati esoni.

Nel primo studio, Joseph Buxbaum del Mount Sinai Hospital di New York e colleghi hanno analizzato campioni di DNA di 3871 individui autistici e 9937 soggetti di controllo, identificando oltre 100 geni che probabilmente influenzano il rischio d'insorgenza del disturbo.

Oltre il 5 per cento dei soggetti autistici infatti mostra mutazioni de novo, cioè non ereditate dai genitori, che determinano una perdita di funzionalità di questi geni. Si ritiene che molti dei geni mutati siano importanti per la funzionalità neuronale, per la formazione delle connessioni tra neuroni, per la trasmissione dei segnali nervosi attraverso le sinapsi e infine per la regolazione dell'espressione genica.

Nel secondo studio, Michael Wigler del Cold Spring Harbor Laboratory a Cold Spring Harbor, nello Stato di NewYork
e colleghi hanno sequenziato gli esoni di più di 2500 famiglie, ciascuna delle quali con un figlio affetto da autismo, confrontando i profili genetici dei bambini autistici con quelli dei bambini non autistici.

Dall’analisi dei dati, gli autori hanno potuto stimare il contributo delle mutazioni all'incidenza dei disturbi dello spettro autistico: il 13 per cento delle mutazioni di senso (missense), cioè di quelle che determinano la sintesi di una proteina con un amminoacido mutato e quindi con una funzionalità non ottimale, contribuisce al 12 per cento delle diagnosi. Mentre il 43 per cento delle mutazioni de novo che rende il gene colpito non funzionale, determina il 9 per cento delle diagnosi.

Da rilevare che, come già emerso in studi passati, alcune mutazioni in grado di alterare l'espressione di un gene sono le stesse individuate per i deficit intellettivi e la schizofrenia. Ciò indica che i farmaci usati per questi disturbi potrebbero rivelarsi utili anche per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico. Credit Le Scienze

Bambino autistico durante la pet therapy, una delle terapie più efficaci per il miglioramento dei sintomi di questo disturbo (© AMELIE-BENOIST / BSIP/BSIP/Corbis)

sabato 30 luglio 2016

CHE GROSSA AMIGDALA CHE HAI !

Vedete che ci combina l'amigdala! Trattiamola bene altrimenti ci mette nei guai! È solo una mandorla nel sistema limbico! Ma spesso sequestra il cervello e  impone i suoi comandi!

L’amigdala è la centralina del cervello che anticipa il dolore! (Non dimentichiamo che le amigdale sono 2 è la destra è più grossa)

I ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele, in uno studio pubblicato sulla rivista The Journal of Neuroscience, hanno mostrato che è l’amigdala, il centro neurale della paura e dell’ansia, a fare da “centralina” per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta. 

Gli studiosi si sono concentrati sull’origine delle differenze individuali nell’avversione alle perdite, e, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, le hanno individuate in un complesso insieme di risposte cerebrali. E’ addirittura il volume dell’amigdala a spiegare le differenze tra i singoli individui nella propensione a cadere vittime di questa insidiosa trappola decisionale. 
L’amigdala è una struttura cerebrale posta nella profondità di ciascuno dei due emisferi cerebrali, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, di riconoscerli e preparare l’organismo ad una risposta adeguata, ad esempio “combatti o scappa”. Prendere decisioni implica la capacità di prevedere le conseguenze positive e negative di ogni possibile scelta. Questo consente di soppesarle attentamente, per arrivare a selezionare quella che riteniamo più vantaggiosa. 

La variabilità dei possibili risultati ha consentito di identificare le regioni cerebrali che, rispetto allo stato di riposo, aumentano o riducono la loro attività in maniera proporzionale ai possibili guadagni e perdite.

Il sistema dopaminergico, un insieme di strutture del cervello che si parlano tra loro utilizzando come mediatore la dopamina, si attiva quando anticipiamo i guadagni e si disattiva quando anticipiamo le perdite. Un altro sistema emotivo, centrato sull’amigdala, si attiva per le perdite e si disattiva per i guadagni.

Ma, a parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono generalmente più intense di quelle associate alle vincite, e l’entità di questa asimmetria, che varia da persona a persona, riflette la tendenza di ciascun individuo ad essere avverso alle perdite. Non solo: questa tendenza è anche fortemente collegata alle dimensioni dell’amigdala, ovvero è maggiore in chi ha un’amigdala più grande. Queste differenze, ovviamente, non sono visibili ad occhio nudo, ma emergono chiaramente con le sofisticate analisi condotte. 

Oggi sappiamo che l’amigdala riconosce anche i possibili pericoli insiti nelle nostre stesse azioni e che la sua attivazione ci spinge più spesso di quanto sarebbe razionale, ad evitare di agire. Questo “freno” al comportamento ci può salvare la vita ma, se non è a sua volta tenuto sotto controllo dal cervello razionale, ci può impedire di cogliere le opportunità offerte dall’ambiente. 

L’esperienza ci insegna che le persone sono tra loro molto diverse da questo punto di vista: i risultati di questo studio costituiscono quindi un punto di partenza per studiare il ruolo dei fattori genetici e delle esperienze di vita nell’influenzare, tra l’altro, la nostra propensione a correre rischi o, piuttosto, a stare sul sicuro. 
Credit La Stampa

venerdì 22 luglio 2016

IL CERVELLO NON SCEGLIE! LA DOPAMINA LO FA PER NOI!


IL CERVELLO NON SCEGLIE! LA DOPAMINA LO FA PER NOI!

Il nostro cervello non sceglie! È motivato da un neurotrasmettitore chiamato dopamina! Questa specie di imprinting rinforzerà le scelte future condizionando il comportamento!

Quando facciamo una scelta, siamo portati a sopravvalutare i benefici che ne abbiamo ricavato per effetto di uno specifico meccanismo di rinforzo delle connessioni neurali, che avviene in seguito al rilascio del neurotrasmettitore dopamina. Un nuovo studio ha permesso di chiarire che le regioni cerebrali coinvolte in questo fenomeno sono il corpo striato e due diverse porzioni della substantia nigra.

Dove hai passato le vacanze, al mare o in montagna?” Chiunque debba rispondere a questa domanda, tenderà a ricordare gli aspetti positivi della scelta fatta, dimenticando magari che qualcosa è andato storto. Al contempo, tenderà a disconoscere i lati positivi dell’opzione che ha escluso, esagerandone gli inconvenienti. Questo fenomeno, che si manifesta quando pensiamo a una scelta fatta in passato, è detto “bias di supporto della scelta”.

Un nuovo studio condotto da un gruppo di ricercatori della Brown University e pubblicato sulla rivista "Neuron" ha ora scoperto che questo fenomeno è correlato a livello neurale a un processo fondamentale denominato “attribuzione del credito”, grazie al quale il nostro cervello rafforza solo i  circuiti specifici che si sono attivati in un’azione che ha determinato una ricompensa, al fine di riuscire a ripeterla con maggiore probabilità.

Il modello sviluppato dagli autori è basato su una precedente ricerca sulla funzione del corpo striato, la regione del cervello che si attiva quando il soggetto valuta il valore della ricompensa di una scelta fatta in passato e delle alternative che sono state scartate.

“A moderare il processo decisionale interviene un meccanismo di questo tipo: una piccola porzione della substantia nigra, denominata pars compacta, rilascia dopamina nello striato per rafforzare le connessioni tra la corteccia e lo striato stesso”, ha spiegato Jeffrey Cockburn, primo autore dello studio. “Questo fa sì che le azioni ricompensate meglio abbiano maggiore probabilità di essere ripetute in futuro”.

Come il cervello si convince della bontà di una scelta

Ma in che modo la pars compacta rinforza proprio i circuiti legati alle scelte che hanno portato a una ricompensa? I ricercatori ipotizzano che nel meccanismo sia coinvolta un'altra parte della substantia nigra, la pars reticulata, il cui compito è rilevare quando le azioni scelte hanno dato un risultato positivo e, simultaneamente, amplificare lo specifico segnale dopaminergico di rinforzo prodotto dalla pars compacta.

“Quando la pars reticulata decide che i segnali di valutazione dello striato sono abbastanza forti da motivare un’azione, da essa partono i segnali verso le strutture a valle che permettono l’esecuzione dell’azione e verso il sistema dopaminergico della pars compacta, in modo che il segnale associato alla ricompensa venga amplificato”.

Da questo meccanismo di rinforzo delle connessioni neurali associate a una scelta effettuata in passato deriva il fatto che tendenzialmente il valore della ricompensa ottenuta sia sovrastimato rispetto alle altre opzioni: secondo lo studio, dunque, il bias di supporto della scelta non sarebbe altro che un sottoprodotto dell’attribuzione del credito.

Cockburn e colleghi hanno anche chiarito il contributo del DNA nel determinare in che misura una persona mostra il bias di supporto della scelta, sottoponendo 80 volontari a un test comportamentale e al contempo a un'analisi genetica.

I ricercatori hanno verificato in particolare la versione posseduta da ogni soggetto del gene DARPP-32, che determina il livello di sensibilità delle cellule dello striato all'azione di rinforzo della dopamina.

Una precedente ricerca ha mostrato che una particolare versione del gene predispone i soggetti all'apprendimento mediato dalla ricompensa, mentre un'altra versione li rende meno inclini a questo tipo di processo. Grazie al test comportamentale, gli autori hanno scoperto che i primi sono anche quelli in cui si mostra più chiaramente il bias di supporto della scelta, corroborando l'ipotesi che dipenda da un meccanismo neurologico di rinforzo mediato dalla dopamina.
Credit Le Scienze

lunedì 18 luglio 2016

SINDROME DI DOWN E RESVERATROLO

Resveratrolo, e sindrome di Down

13/07/2016

La disabilità intellettiva è tra le conseguenze più evidenti dell’alterazione cromosomica che caratterizza i soggetti con sindrome di Down. La presenza di una terza copia del cromosoma 21 riduce, in particolare, la capacità di generare nuove cellule nervose nell’area del cervello denominata ippocampo. Una ricerca attesta ora che utilizzando il resveratrolo, un polifenolo presente in un’ampia varietà di piante e frutti, tra cui l’uva rossa e quindi il vino, è possibile stimolare la formazione di nuovi neuroni. Lo studio, condotto dall’Istituto di biomembrane e bioenergetica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibbe-Cnr) di Bari, in collaborazione con il Dipartimento di scienze mediche di base, neuroscienze e organi di senso dell’Università di Bari, il Dipartimento di neuroscienze e tecnologie del cervello dell’Iit di Genova e l’Inserm di Parigi, è pubblicato sulla rivista Biochimica et Biophysica Acta-Molecular Basis of Disease.

“Con questo lavoro, eseguito su linee cellulari di un modello animale con sindrome di Down, dimostriamo che il resveratrolo è in grado di ripristinare la neurogenesi agendo a livello dei mitocondri”, spiega Rosa Anna Vacca, ricercatrice dell’Ibbe-Cnr e coordinatrice del lavoro. “In condizioni normali, i mitocondri forniscono l’energia necessaria per alimentare i diversi processi cellulari, tra cui la proliferazione e la corretta funzionalità dei neuroni, che risultano alterati nelle persone con sindrome di Down e vengono invece riportati a valori normali dal resveratrolo. Esistono migliaia di studi sugli effetti protettivi del resveratrolo in diverse malattie, da quelle metaboliche e neurodegenerative a quelle dell’apparato cardio-vascolare e nell’invecchiamento: è però la prima volta che questa molecola viene testata in sindrome di Down, attraverso un meccanismo che inoltre correla il deficit della funzionalità dei neuroni alla ridotta funzionalità mitocondriale”.

La ricerca conferma anche l’efficacia di un altro polifenolo di origine naturale, l’epigallocatechina-3-gallato (Egcg), estratto dal tè verde, nel riattivare il metabolismo energetico mitocondriale e la generazione di nuovi neuroni. “L’utilizzo di molecole di origine naturale, prive di effetti collaterali, rappresenta un’opportunità importante per migliorare il quadro clinico complessivo e la qualità della vita dei soggetti con sindrome di Down. In Spagna è stato appena portato a termine uno studio su 84 giovani adulti con sindrome di Down in cui si è osservato che il trattamento con Egcg potenzia gli effetti della riabilitazione cognitiva”, aggiunge Daniela Valenti (Ibbe-Cnr). 

“Anche in Italia è in fase di organizzazione un trial clinico in cui, in collaborazione con il Dipartimento di medicina specialistica, diagnostica e sperimentale dell’Università di Bologna, si valuteranno gli effetti del resveratrolo e dell’Egcg, da soli e in combinazione, su un gruppo di persone con sindrome di Down. In uno studio pilota pubblicato lo scorso anno avevamo già riportato l’efficacia dell’utilizzo combinato, in un bambino con sindrome di Down di 10 anni, di Egcg con acidi grassi omega-3 nel ripristinare alterazioni critiche della sindrome senza alcun effetto collaterale”, conclude Rosa Anna Vacca.   Credit C.N.R.

lunedì 11 luglio 2016

ANCHE LA COSCIENZA È ..... INCOSCIENTE!

Studiando numerosi casi sulla volontà cosciente  gli scienziati si sono chiesti come si poteva fare per determinare se  era o meno sempre presente durante un'azione. Nei cartoni animati è semplice. A un certo punto si accende una lampadina sulla testa del personaggio che, dopo aver guardato prima a destra, poi a sinistra, si precipita a compiere l'azione volontaria ideata.

L'uomo non ha lampadine che si accendono sopra la testa, ma i ricercatori possiedono ora gli strumenti per vedere il succedersi delle varie fasi di una azione: l'elettromiografia, che misura il movimento muscolare, e l'Eeg o elettroencefalogramma, che misura l'attività elettrica cerebrale.

È stato usando questi strumenti nell'analisi del movimento di un dito che Benjamin Libet, celebre fisiologo dell'Ucla di Los Angeles, ha capito, 20 anni fa, che circa

535 millisecondi prima del movimento del dito il cervello inizia a fare qualcosa di cui non abbiamo alcuna coscienza;

204 millisecondi prima che il dito si muova arriva la coscienza di voler muovere il dito;

86 millisecondi prima arriva la coscienza che il dito si muove (ma il dito è ancora fermo),

e infine si muove finalmente il dito.

Insomma, nel cervello il movimento di un dito viene innescato da quello che i ricercatori chiamano RP, o readiness potential (potenziale di prontezza) che si verifica 331 millisecondi prima della volontà cosciente di muoverlo.

In base a questo tipo di esperimenti, i ricercatori hanno dedotto che la volontà cosciente è un evento mentale causato da eventi precedenti e che nella realtà non innesca la decisione di fare un movimento volontario, ma è solo uno degli eventi di una cascata che alla fine porta al movimento.

I processi automatici

Tutto ciò è ancora più evidente nelle risposte automatiche, come premere l'acceleratore quando il semaforo diventa verde o frenare quando un'auto ci taglia la strada. Lì la reazione automatica ha luogo in 200-300 millisecondi e addirittura il movimento si verifica prima che la coscienza abbia preso nota dello stimolo. Eppure a posteriori siamo sicuri di aver voluto frenare. Sono più veloci della volontà cosciente anche i processi diventati automatici: un dattilografo digita 120 parole al minuto, cioè due parole al secondo.

Per digitare la frase "due parole al secondo" ci vogliono 2 secondi, quindi in 500 millisecondi si digita una parola. La digitazione, insomma, procede così veloce che non c'è spazio per la volontà cosciente, tanto che quando ci si accorge di aver fatto un errore, la frase è già finita. Lo stesso si verifica quando parliamo: la scelta dei vocaboli di solito non è cosciente, e non è cosciente neppure il tiro al volo del centravanti. Insomma, la volontà cosciente è la lumaca della situazione, arriva per ultima. Ma se non è la volontà, che cosa ci fa veramente agire?

La nostra firma

Secondo alcune ricerche, a farci agire in questi casi sarebbe direttamente l'inconscio. L'influenza dell'inconscio sulle azioni è stata dimostrata chiaramente nel 1996 studiando un gruppo di studenti universitari. Bastava fare un test in cui fossero presenti vocaboli tipici dell'invecchiamento come rugoso, brizzolato, pensionato, saggio e vecchio per indurre in questi studenti baldanzosi un passo rallentato rispetto a coetanei sottoposti a un test in cui non c'erano quei vocaboli.

Basterebbe quindi pensare a chi cammina lentamente per camminare lentamente. Così come basta pensare di vincere per aver maggiori probabilità di successo. «A meno che si agisca molto, molto lentamente e ci si pensi sopra così tanto da farsi venire mal di testa, si è inevitabilmente portati a fare molte cose che non sono state coscientemente valutate» dice Daniel Wegner, docente di psicologia a Harvard. Ma se la volontà non causa l'azione, a che serve? «È un segnale che assomiglia per molti versi a un'emozione: attraversa la mente e il corpo per darci la paternità delle nostre azioni» spiega Wegner. «Serve a segnare nella memoria le azioni che abbiamo identificato in questo modo.
A riconoscerle come nostre. Ci aiuta a distinguere fra le cose che stiamo facendo e tutte le altre cose che si verificano intorno. E ha una funzione chiave nel dominio della morale e del successo. La sensazione che siamo autori del nostro agire è la base su cui valutiamo se ci siamo comportati bene o male. Ci dice dove siamo e ci fa sentire l'emozione appropriata alla moralità dell'azione che stiamo facendo: colpa, fierezza e altre emozioni morali non ci attanaglierebbero tanto se non sentissimo che abbiamo voluto compiere le azioni».

sabato 9 luglio 2016

L'AMIGDALA E LE SCOPERTE DI LEDOUX

L'amigdala sequestra il cervello ed impone ancestrali comandi!

Il cervello elabora le risposte emotive in 12 millesimi di secondo; quelle razionali in un tempo doppio. Per questo le emozioni ci mettono nei guai.

Stava uscendo dalla chiesa addobbata di fiori; al braccio la donna appena sposata dopo un lungo corteggiamento. Le campane suonavano a festa, intorno c'erano parenti e amici; Gunny, americano cinquantenne, rideva spensierato. Poi lo scoppio, per il ritorno di fiamma di un'auto. Nonostante non indossasse la tuta mimetica ma l'abito scuro, e benché non fosse nell'umida foresta asiatica, Gunny si sentì afferrare dal terrore: e, come aveva fatto 25 anni prima in caso di imboscate dei Vietcong, sentendo nelle orecchie il rumore delle armi si buttò in una siepe. Giusto in tempo per capire che quella paura non era più attuale. Eppure l'emozione era stata tanto forte da farlo agire d'istinto, inconsciamente, senza pensare.

Automatismi

Le emozioni d'altronde scavalcano quasi sempre il cervello razionale. Lo invadono di sentimenti forti, danno determinazione e impulsività ai nostri pensieri, li agitano e li forzano. A chi non è capitato di fare un balzo di spavento per uno scherzo stupido, o di fare una scenata eccessiva a un parente perché era "di cattivo umore"? È in momenti come questi che le emozioni diventano incontrollabili.

Come mai?

Studiando il percorso delle informazioni dall’orecchio all'amigdala, Joseph LeDoux, neuroscienziato di New York, ha scoperto una scorciatoia delle emozioni, ereditata direttamente dai primi animali privi di corteccia (il luogo del pensiero razionale) e particolarmente utile alla sopravvivenza. Il rumore dello scoppio entrato nell'orecchio di Gunny era andato al talamo, ma da qui una parte dell’informazione era passata direttamente all'amigdala, una parte del cervello più antica, dove quel rumore era indissolubilmente legato alle emozioni vissute, agli scoppi, alle carneficine del Vietnam, tanto da far scattare immediatamente una reazione di difesa. Secondo i calcoli di LeDoux, per questa via il messaggio estremamente semplificato (grosso modo "scoppio=sparo=morte'') ci mette 12 millesimi di secondo a innescare la risposta di fuga. La metà del tempo necessario per il percorso completo, che passa per la corteccia e aggiunge le informazioni della ragione, del tipo "Non si vedono Vietcong, e neppure fucili", che richiedono 24 ml secondi per essere elaborate. E Gunny nel frattempo è già nel cespuglio.

Vita di relazione

Lì nell'amigdala sembrano esserci anche le spiegazioni di tante risposte inadeguate della vita di relazione. Ci sono i motivi che ci fanno decidere, già nei primi secondi di un neonato, se una persona ci piace oppure no; se una serata in compagnia andrà bene o male; se un dipendente da assumere fa o no al caso nostro. In un tempo di millisecondi non entra l'elaborazione ragionevole della corteccia e i suoi motivi logici e razionali. Le prime impressioni sono quelle ingannevoli dell'amigdala. E poiché l'amigdala sceglie in base al metodo associativo di elementi del presente con quelli del passato può succedere che l'antipatia istintiva provata verso una nuova conoscenza sia dovuta più al colore dei suoi capelli (rossi come quelli del burbero vicino della nonna memorizzati nell'infanzia) che a razionali motivi di sospetto. E quei ricordi dell'infanzia, superati e inconsci, ispirano comportamenti spesso immotivati.
Fonte  Focus

IL LATO NASCOSTO DELLA MENTE!

Esempio n. 1 Una signora composta ed elegante esce dalla chiesa dove ha assistito al matrimonio di sua figlia. All'improvviso si mette a urlare come una forsennata e abbraccia il signore che stava salutando. Solo dopo "si accorge" di cosa le ha fatto compiere quel gesto inopportuno: la paura di un serpente intravisto con la coda dell'occhio. Serpente peraltro di gomma, portato da un nipotino birichino.

Esempio n. 2 Partita di calcio, mischia in area. Da una selva di gambe, il centravanti vede schizzare, velocissimo, davanti ai suoi piedi, un pallone. Non ha neppure il tempo di pensare a che cosa deve fare. Ma lo tocca. E fa gol!

Esempio n. 3. Il signor Rossi va a votare. Come sempre, fa con convinzione la croce sul simbolo del suo partito preferito. E’, convinto di avere fatto la scelta giusta, razionale. Non è vero. Se potesse leggere il suo inconscio scoprirebbe che ha votato quel partito solo per distinguersi dal padre, fedele votante del partito rivale. O che lo ha fatto spinto da un pregiudizio tipico, del suo ambiente, acquisito quando aveva 5 anni.

In tutte queste situazioni ad averci spinto ad agire non e stata la parte razionale cosciente della nostra mente, ma un lato nascosto, che sfugge al nostro controllo e che non sempre ci fa fare ciò che poi vorremmo aver fatto. Talvolta è un pregiudizio diffuso o un antico ricordo che agisce, senza che ce ne accorgiamo, sulle nostre scelte, talvolta un’emozione, capace di scavalcare qualsiasi ragionamento logico. In altri casi, dicono gli scienziati, l’inganno è ancora più clamoroso: siamo convinti di essere coscienti di azioni di cui, nel 90% dei casi, siamo solo attori. 

Freud aveva ragione

I ricordi cancellati e l'inconscio condizionano la nostra vita e le nostre scelte apparentemente più coscienti: ecco perché le ultime ricerche danno ragione a Freud.
Il primo a teorizzare, alla fine dell'800, l'esistenza di una parte della mente che sfugge al nostro controllo razionale fu Freud: secondo il neurologo austriaco il nostro comportamento è dovuto a un guazzabuglio di emozioni, pulsioni e motivazioni legate a tracce lasciate nell'infanzia e diventate non coscienti. Ma buona parte dei neuroscienziati ha guardato con sospetto le idee di Freud perché non verificabili con il metodo sperimentale. Oggi però le neuroscienze stanno dimostrando che l'inconscio esiste e che Freud aveva ragione. Prendiamo per esempio la repressione: secondo Freud i ricordi indesiderati e spiacevoli possono essere deliberatamente dimenticati. Alla fine del secolo scorso Michael Anderson e Collin Green dell'University of Oregon hanno dimostrato che la repressione esiste, ed è molto frequente. In laboratorio, in condizioni controllate, hanno "imitato" la repressione dimostrando che se si cerca deliberatamente di dimenticare alcuni vocaboli, successivamente si ha difficoltà a ricordarli, anche se qualcuno ci promette denaro.

Moglie o mamma?

Se poi pensate che la scelta del partner sia dovuta a fattori contingenti, vi illudete. Anche in questo caso l'inconscio vi ha giocato uno scherzo. Vi ricordate il complesso di Edipo di Freud? Tutti i bambini, diceva, si innamorano del genitore dell'altro sesso. David Perrett Dell'University of St. Andrews, in Scozia, ha dimostrato che ad attirarci sessualmente da adulti sarebbero proprio i visi che più ci ricordano i nostri genitori quando li abbiamo conosciuti. Insomma, impareremmo che cosa cercare in un partner guardando mamma e papà durante l'infanzia. Sono solo alcuni esempi in cui Freud sembra aver trovato alleati anche al di fuori della psicanalisi. Ma la stessa psicanalisi ha rivisto profondamente il modo di intendere l'inconscio. Spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista che insegna a Roma: «Secondo Freud era un po' come la "cantina della mente": il magazzino in cui nascondiamo le cose spiacevoli, che non ci piace ricordare. Oggi, invece, anche per la psicanalisi è diventato una fucina di pensieri e di emozioni in cui le nostre esperienze sono rielaborate in continuazione». Un po' come accade con i ricordi, influenzati in continuazione da emozioni, associazioni affettive e dalla situazione in cui ci troviamo a ricordare. I più pensano che la memoria sia una specie di ripostiglio dove possono essere archiviati i ricordi richiamabili alla coscienza quando serve.
Fonte Focus

LE MEMORIE NON DICHIARATE

In realtà esistono particolari tipi di ricordi, detti "memorie implicite", di cui non siamo consapevoli, che influenzano fin dalla nascita lo sviluppo della personalità. Prima della maturazione dell'ippocampo, il cervello registra le abilità gestuali, le acquisizioni per condizionamento (se cadi, ti fai male) e forse anche nomi e significati degli oggetti soltanto come "abilità non consapevoli". Ma non è solo un problema di maturazione dell'ippocampo. Nel nostro database inaccessibile ci sono tutti i "ricordi" di quando non sapevamo ancora parlare e descrivere emozioni e stati d'animo. Harlene Hayne e Gabrielle Simcock, psicologhe Dell'University of Otago (Nuova Zelanda), sono convinte che anche se non si ricordano gli eventi della prima infanzia, essi sono ancora li. Quello che ci manca è il catalogatore per raggiungerli: il vocabolario. Le ricercatrici hanno fatto giocare alcuni bimbi con uno strumento complesso. Quando, un anno dopo, li hanno interrogati, i bambini hanno risposto usando il vocabolario di cui disponevano l'anno prima. «In un anno avevano acquisito un vocabolario molto più completo, ma non erano in grado di usarlo per descrivere l'esperienza dell'anno precedente» dice Hayne. Eppure il ricordo dell'esperienza era li: quando ai bambini fu mostrata una foto del gioco, erano in grado di dimostrare come ci avevano giocato. La loro abilità di ricordare era superiore alla loro capacità di parlarne. «Il linguaggio funziona come un sistema di catalogazione per la memoria» dice Hayne. «Le esperienze che precedono la possibilità di catalogarle con il linguaggio spariscono, perché non hanno indice. Il volume è nello scaffale, ma solo il caso lo fa trovare».

Ripercussioni

Buona parte di ciò che facciamo lo dobbiamo proprio alle memorie implicite. Spiega Alberto Oliverio, direttore dell'Istituto di Psicobiologia del Cnr: «Quando guidiamo l'auto, andiamo in bici o manipoliamo oggetti, in realtà usiamo una serie molto complessa di aggiustamenti motori senza rendercene conto». Anzi, li usiamo così bene proprio perché non ce ne rendiamo conto: se dovessimo comportarci al volante come alla prima lezione di guida (adesso metto in folle; accendo il motore; metto la freccia; inserisco la prima e schiaccio l'acceleratore) il traffico sarebbe lento e faremmo più incidenti. Abbiamo imparato davvero qualcosa quando dimentichiamo di conoscerla. Ma l'inconscio agisce ancora più profondamente.

Autoinganno

Dice Oliverio: «A volte estendiamo alcune caratteristiche di una persona che ci è simpatica o antipatica ad altre convinti inconsciamente che alcuni tratti somatici siano tipici della simpatia». Forse è proprio per questo che la prima impressione, "a pelle", ci influenza più di quelle successive. Per quanto ci riguarda, invece, amiamo idealizzarci. Se un attore, alla fine di un monologo, viene fischiato, può dare la colpa alla sua cattiva recitazione o all'ignoranza del pubblico. La prima ipotesi è razionale ma dolorosa. La seconda, non fa soffrire ma nega la realtà. Di noi ci piace pensare che siamo buoni, bravi, onesti. L'inconscio però sa la verità. «La coscienza è una facciata per ingannare gli altri e noi stessi. La verità è nell'inconscio» dice Robert Trivers della Rutgers University (Usa). «L'autoinganno ha una sua utilità: se riesci a convincerti che sei il migliore, bluffi meglio. Mentre se conosci le tue debolezze, le condizioni competitive ti mettono in difficoltà. Insomma, meglio credere di essere i migliori, anche se non è vero».

I meccanismi di difesa

E se i meccanismi di difesa individuati da Sigmund Freud (repressione dei ricordi sgraditi ecc.) fossero causati da problemi della corteccia cerebrale destra? Lo sostiene V S. Ramachandran, docente di neuroscienze a San Diego, che ha studiato pazienti che rifiutano di accettare i sintomi di paralisi degli arti dovute a lesioni all'emisfero sinistro. Sulla sedia a rotelle sono convinti di muoversi a loro piacere, mentre conservano la coscienza di altri mali non neurologici.
Secondo Ramachandran, infatti, l'emisfero sinistro è "conservatore", incorpora ogni nuovo dato in modo da avere una visione del mondo coerente coi ricordi già immagazzinati ed esclude i dati minacciosi. L'emisfero destro invece rileva tutte le incongruenze e costringe il sinistro a rivedere il proprio modello di realtà. Ma se l'emisfero destro è danneggiato non si possono vedere le incongruenze. Questo capita non solo ai pazienti di Ramachandran, ma anche ai nevrotici.

I Lapsus

Anche quando il ricordo sembra perfettamente cosciente non corrisponde mai a ciò che è veramente successo, perché è influenzato da variabili emotive. Lo dimostra l'esperimento del foulard di Edouard Claparède, psicologo svizzero che all'inizio del '900 fece interrompere una lezione per 20 secondi da un disturbatore con un foulard bianco e marrone. Foulard che nelle descrizioni dei testimoni divenne rosso, come "deve" essere un foulard rivoluzionario. L'inconscio gioca scherzi anche con lapsus e atti mancati nei quali, senza volerlo, diciamo o facciamo ciò che volevamo nascondere. «Un mio paziente perdeva sempre la carta d'identità nei periodi di crisi» dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista. Un altro, che in seduta non riusciva a raccontare di sé, dimenticava da me l'agenda o le chiavi di casa, come a dire che una parte di lui era disponibile a farsi conoscere". Tutte "verità" che superano il controllo della coscienza.
Fonte Focus

venerdì 24 giugno 2016

Neuroscienze, il lato cognitivo della corteccia motoria

Neuroscienze: il lato cognitivo della corteccia motoria

E’ una regione del cervello che governa il movimento, ma non solo. Inaspettatamente si attiva anche durante lo svolgimento di alcuni compiti cognitivi. Lo studio dell’IRCCS Medea appena pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience
neuroscienze

L’area cerebrale che si attiva quando compiamo un movimento si attiva anche quando eseguiamo compiti cognitivi, come ricordare una sequenza di numeri o parole, ascoltare una melodia, immaginare come possa apparire un oggetto da un altro punto di vista o addirittura provare empatia quando vediamo un'altra persona soffrire.

Lo dice un gruppo di ricerca dell’IRCCS Medea – La Nostra Famiglia di San Vito al Tagliamento, che ha esaminato i dati in letteratura su studi di neuroimaging, cioè quei lavori che indagavano quali aree cerebrali venivano attivate in soggetti impegnati in un determinato compito: in particolare sono stati presi in esame gli studi sulla corteccia motoria primaria, una regione del lobo frontale tradizionalmente pensata come l’area che governa il movimento.

Il lavoro, appena pubblicato sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience, modifica il ruolo di quest’area del cervello, conferendole anche una possibile dimensione cognitiva.

I ricercatori hanno eseguito uno studio di meta-analisi quantitativa combinata con l'uso di mappe dell’architettura cellulare della corteccia motoria, per verificare che effettivamente le attivazioni corticali durante compiti cognitivi avvenissero all’interno dell’area indagata e non in quelle limitrofe.

In totale sono stati analizzati dati provenienti da 126 esperimenti, 1.818 soggetti e 2.030 coordinate di attivazione cerebrale.

Ebbene, gli studi di neuroimaging indagati hanno riportato attivazione funzionale nella corteccia motoria durante sei diverse categorie di compiti cognitivi: l’immaginazione motoria, la memoria di lavoro, la rotazione mentale, l’elaborazione sociale, la lingua e l'elaborazione uditiva.

L'analisi ha evidenziato che le diverse categorie cognitive attivano in maniera consistente diversi settori dell'area motoria e ha valutato anche l’ampiezza e la localizzazione del tessuto cerebrale dedicato.

Compiti di elaborazione sociale, emozioni, empatia attivano l'area 4a dell'emisfero sinistro, compiti linguistici (elaborazione verbi di azione) attivano le aree 4a e 4p di entrambi gli emisferi cerebrali, la rotazione mentale attiva l'area 4a sinistra, la working memory attiva l'area 4a destra, la simulazione mentale dei movimenti attiva entrambe le aree 4a e 4p di sinistra, e l'elaborazione uditiva attiva l'area 4a di sinistra.

Risulta inoltre un’area comune (area 4a sinistra) che è impegnata durante lo svolgimento di compiti appartenenti a molte (4/6) delle categorie cognitive testate: quest'area corrisponde alla rappresentazione nella corteccia motoria della mano. Credit Le Scienze 22 giugno 2016