domenica 21 agosto 2016

RICORDI, CINESTETICA ED IPPOCAMPO


L'apprendimento non deve essere esclusivamente digitale ma mediato da esperienze e attività corporee. La memoria cinestetica rappresenta la base per immagazzinare ricordi nella memoria a lungo termine!

Per immagazzinare correttamente nuovi ricordi è necessario avere una piena percezione del proprio corpo: se viene a mancare, per esempio se gli input sensoriali sono filtrati dalla realtà virtuale, la memoria diventa frammentaria. È questa la conclusione di uno studio che apre la strada a una migliore comprensione delle amnesie che si osservano in molti disturbi psichiatrici in cui i pazienti manifestano fenomeni dissociativi

Percezione corporea e capacità di ricordare sono strettamente correlate: per immagazzinare i ricordi delle esperienze che viviamo in prima persona, che costituiscono la cosiddetta memoria episodica, dobbiamo sentire di “essere nel nostro corpo”. È quanto è emerso da una nuova ricerca pubblicata sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” a firma di un gruppo di ricercatori del Karolinska Institut e dell'Università di Umeå, in Svezia. Il risultato potrebbe chiarire per la prima volta perché alcuni pazienti psichiatrici che riferiscono di sentirsi fuori dal proprio corpo manifestano anche una memoria episodica molto frammentaria.

Non c'è memoria episodica senza percezione del corpo

Lo studio è stato condotto coinvolgendo 84 studenti in quattro falsi esami, in cui un attore impersonava un falso professore del Karolinska dalla personalità spiccatamente eccentrica, per rendere l'esperienza particolarmente memorabile. In due delle quattro interrogazioni gli studenti erano seduti normalmente davanti al "professore" , mentre nelle altre due percepivano il professore e l'ambiente tramite un casco per la realtà virtuale. Le stimolazioni sensoriali, in questo secondo caso, erano ideate in modo da far perdere al soggetto la percezione del proprio corpo.

Una settimana dopo, i volontari sono stati sottoposti a un test di memoria, in cui veniva chiesto loro di ricostruire l'esperienza dell'esame, fornendo dettagli sugli eventi e sulla loro successione temporale, nonché sulle sensazioni percepite in quel momento.

Durante il test, i soggetti venivano sottoposti a scansioni di risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica di imaging cerebrale che consente di evidenziare l'attivazione delle diverse zone del cervello mentre il soggetto è impegnato in qualche attività.

È così emerso che gli studenti interrogati “fuori dal corpo”, attraverso la realtà virtuale, ricordavano molto peggio l'esperienza di quelli interrogati “nel corpo”.

La risonanza magnetica ha rivelato una differenza fondamentale di attivazione nell'ippocampo, una regione cerebrale fondamentale per l'elaborazione della memoria episodica. “Quando cercavano di ricordare ciò che era successo durante le interrogazioni in realtà virtuale, l'attività dell'ippocampo si annullava”, spiega Henrik Ehrsson, uno degli autori della ricerca. “Ma si poteva osservare un'attività nella corteccia del lobo frontale, a indicare che i ragazzi stavano effettivamente facendo uno sforzo per ricordare”.

L'ipotesi conclusiva dei ricercatori è che esiste una stretta correlazione tra esperienza corporea e memoria: il nostro cervello crea l'esperienza del corpo nello spazio raccogliendo le informazioni che provengono da tutti i sensi. L'ippocampo poi collega tutte le informazioni che si trovano nella corteccia cerebrale in una memoria unificata, destinata all'immagazzinamento a lungo termine. Durante l'esperienza “fuori dal corpo”, questo processo d'immagazzinamento è disturbato, con il risultato che il cervello crea memorie frammentarie.

“Riteniamo che la scoperta possa essere importante per le ricerche sulle amnesie che si osservano in molti disturbi psichiatrici come il disturbo da stress post-traumatico, i disturbi di personalità borderline e alcune psicosi, in cui i pazienti manifestano fenomeni dissociativi”, ha concluso Loretxu Bergouignan, un altro degli autori. Credit Le Scienze

1~ Senza una percezione del proprio corpo, non si attiva l'ippocampo, la regione cerebrale dove si strutturano nuove memorie (Science Photo Library)

2~ Una fase dei test condotti durante lo studio

domenica 14 agosto 2016

IL CORPO CALLOSO INCIDE SULLE SINDROMI ADHD, AUTISMO E OCD

Autismo, disturbo ossessivo compulsivo e deficit di attenzione possono condividere dei marcatori nel cervello. Tutte e tre le malattie sono legate a difetti nel fascio nervoso che collegagli emisferi cerebrali. 


Le manifestazioni dell'autismo hanno radici genetiche con il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) e disturbo da deficit di attenzione (ADHD). Le tre condizioni hanno caratteristiche in comune, come ad esempio l'impulsività. I nuovi risultati suggeriscono che essi condividono anche una impronta specifica del cervello.

Il primo confronto dell'architettura del cervello attraverso queste condizioni ha rilevato che tutte le affezioni sono associate con interruzioni nella struttura del corpo calloso . Il corpo calloso è un fascio di fibre nervose che collega gli emisferi destro e sinistro del cervello. I risultati sono apparsi il 1 luglio per l'American Journal of Psychiatry.

I medici possono avere difficoltà a distinguere l'autismo dalla ADHD sulla base di soli sintomi. Ma se le condizioni sono caratterizzate da problemi strutturali simili nel cervello, gli stessi interventi potrebbero risultare utili, non importa quale sia la diagnosi, dice la ricercatrice Stephanie Ameis, assistente professore di psichiatria presso l'Università di Toronto.

Gli aspetti peculiari di ogni condizione potrebbero derivare da altri attributi cerebrali, come ad esempio le differenze nelle connessioni tra i neuroni, dice Thomas Frazier , direttore della ricerca presso la Cleveland Clinic Foundation. "Una conclusione ragionevole è che l'autismo e ADHD non differiscono in modo strutturale, ma potrebbero differire in termini di connettività", spiega Frazier, che non è stato coinvolto nello studio.


I COLLEGAMENTI INTERROTTI:


Il team di Ameis ha esaminato il cervello di 71 bambini con autismo, 31 con ADHD, 36 con disturbo ossessivo compulsivo e 62 bambini tipici che utilizzano l'imaging del tensore di diffusione . Questo metodo fornisce un quadro della materia bianca del cervello, le fibre lunghe che collegano le cellule nervose, misurando la diffusione di liquidi attraverso queste fibre.

I ricercatori hanno visto interruzioni diffuse nella struttura della materia bianca tra i bambini con una delle tre condizioni. Hanno trovato, in ogni caso, un minor numero di alterazioni nei bambini con disturbo ossessivo compulsivo rispetto a quelli con autismo o ADHD.

Questa scoperta può riguardare l'insorgenza precoce dell'autismo e ADHD. Ameis sostiene che interruzioni della sostanza bianca possono produrre problemi connessi con OCD durante l'infanzia.

I genitori hanno anche valutato l'attenzione dei loro figli e le abilità di comunicazione sociale, i comportamenti ossessivi e la capacità di svolgere le attività quotidiane. I bambini che non hanno una buona indipendenza nelle attività quotidiane, hanno le interruzioni più significative della sostanza bianca. I ricercatori non hanno trovato alcuna connessione tra la struttura del cervello e gli altri comportamenti.

"Non vi è un'associazione tra ciò che il cervello sembra, in termini di perdita di valore, e come si è alterata nella vita quotidiana", dice Ameis.


TRACCIARE TRATTI:


I ricercatori hanno anche verificato se vi fossero problemi particolari di connessione tra materia bianca. L'unico tratto che guarda allo stesso modo tutti e tre i gruppi è il corpo calloso, il che suggerisce che le interruzioni di questo tratto possono essere alla base delle caratteristiche che le condizioni hanno in comune.

"La cosa interessante è che il corpo calloso è uno dei primi tratti per lo sviluppo ed è il più grande snodo  comunicativo nel cervello. Quindi, sostiene Ameis,  potrebbe essere un tratto che crea vulnerabilità per queste condizioni dello sviluppo neurologico ".

I risultati sono ancora preliminari, tuttavia, i ricercatori hanno rilevato cambiamenti in una sola piccola parte del corpo calloso, quindi non è chiaro se le aberrazioni che vedevano sono clinicamente significative dice Ruth Carper , professore assistente di ricerca di neuroscienze presso l'Università della California, San Diego, che non era coinvolta nello studio.

E 'anche possibile che le differenze tra i tre gruppi derivano dal movimento nello scanner, sostiene Carper, un problema comune durante la scansione di bambini con queste condizioni.

I ricercatori dicono che i risultati sono un primo passo verso le somiglianze e le differenze tra le tre condizioni. credit Scientific American


venerdì 12 agosto 2016

Il riconsolidamento della memoria

IL RICONSOLIDAMENTO DELLA MEMORIA

Dimenticare un evento della propria vita potrebbe non essere un processo definitivo: lo dimostra un nuovo studio sui topi di laboratorio, in cui gli sperimentatori sono riusciti a invertire l'amnesia totale di un evento doloroso. Il risultato è un passo avanti significativo per la comprensione dei meccanismi della memoria e potrebbe avere in futuro un impatto significativo per alcuni disturbi psichiatrici


I ricordi autobiografici che non riusciamo più a richiamare potrebbero non essere perduti per sempre, ma nascosti da qualche parte nel nostro cervello. È la suggestiva ipotesi che emerge da un nuovo studio sperimentale sui processi di consolidamento e riconsolidamento della memoria condotto sui topi da un gruppo di ricercatori dell'Università di Cardiff, nel Regno Unito, guidati da Kerrie Thomas, e illustrato sulle pagine di “Nature Communications”.

Il consolidamento della memoria è un processo che può durare da alcuni minuti ad alcune ore, in cui avviene la conversione di una traccia mnestica da una forma instabile a una forma stabile, che può così essere richiamata anche a distanza di giorni oppure di anni. Questo richiamo successivo, come dimostrato da alcuni studi, è un processo dinamico, perché riporta il ricordo consolidato nella sua forma instabile, che necessita di un riconsolidamento.

A questo riguardo, un risultato rilevante, emerso dagli studi sui topi di laboratorio, è che se interviene qualche elemento a interferire con il riconsolidamento, un ricordo può essere perduto per sempre. Questa amnesia permanente è denominata blocco del riconsolidamento.

Ricordi perduti ma non per sempre

Con i topi di laboratorio, il fenomeno del blocco del riconsolidamento si evidenzia con un tipico esperimento di condizionamento classico, o pavloviano, in cui l'animale viene esposto a uno stimolo neutro (condizionato), per esempio un suono, associato a uno stimolo doloroso (incondizionato). Dopo diverse ripetizioni del condizionamento, il roditore mostra di avere paura, manifestando il caratteristico “congelamento sul posto”, ogniqualvolta percepisce lo stimolo condizionato.

Se si silenziano i geni Zif268 o Arc nella regione cerebrale dell'ippocampo
dei topi e si inibisce così la sintesi delle rispettive proteine, implicate nei processi di consolidamento e riconsolidamento, è sufficiente richiamare un ricordo, esponendo per esempio i topi allo stimolo condizionato, per far sì che lo stesso vada perduto per per sempre: i topi, in sostanza, non hanno più paura dello stimolo condizionato.

Ora però i ricercatori di Cardiff sembrano smentire almeno in parte questo modello, dimostrando che la paura dello stimolo condizionato, nelle stesse condizioni sperimentali, può essere ripristinata, ricorrendo a un altro fenomeno caratteristico del condizionamento classico: l'estinzione della paura. Se infatti gli animali condizionati vengono esposti ripetutamente al solo stimolo condizionato - in pratica, al solo suono senza stimolo doloroso successivo – dopo un certo tempo non mostrano più alcun timore.

Thomas e colleghi hanno indotto nei topi il blocco del riconsolidamento mediante il silenziamento genico, e li hanno poi esposti al solo stimolo condizionato, che ha avuto l'effetto di ripristinare la risposta comportamentale condizionata, cioè la paura.

“Le precedenti ricerche in questo campo hanno scoperto che il richiamo di un ricordo è un processo sensibile alle interferenze, che in alcuni casi portano al completo oblio”, ha spiegato Thomas. “Il nostro studio ora ha dimostrato che il ricordo non è perduto completamente e può essere recuperato".

Il risultato dello studio ha diverse conseguenze, sia sul piano teorico sia sul piano pratico. In primo luogo, infatti, dimostra che i meccanismi molecolari del blocco del riconsolidamento interferiscono con quelli dell'estinzione, smentendo l'ipotesi che il riconsolidamento sia un processo di memoria a sé stante. In secondo luogo, contribuisce a chiarire alcuni meccanismi fondamentali della memoria che potrebbero essere utili a fini terapeutici in soggetti colpiti da amnesia.

“Siamo ancora lontani dal poter aiutare le persone con problemi di memoria, ma questi modelli animali riproducono accuratamente ciò che avviene nel cervello umano, suggerendo che le nostre memorie autobiografiche, quando sembrano perdute definitivamente, potrebbero essere invece aggregate in modo diverso ad altri ricordi”, ha concluso Thomas. “Questa ipotesi apre interessanti prospettive per disturbi psichiatrici come la sindrome post traumatica da stress, la schizofrenia e la psicosi, in cui i problemi di memoria hanno un ruolo importante”. Credit Le Scienze

martedì 9 agosto 2016

IPPOCAMPO, AUTISMO, SCHIZOFRENIA ED EPILESSIA

IPPOCAMPO, AUTISMO, SCHIZOFRENIA ED EPILESSIA

Un network di geni nelle cellule dell'ippocampo ha una notevole influenza sulle capacità cognitive generali, e circa un terzo dei suoi geni, se mutato, può dare origine a diversi disturbi del neurosviluppo. La correlazione è stata dimostrata per la prima volta in uno studio condotto su topi e su esseri umani che getta le basi per una migliore comprensione di disturbi quali l'autismo, la schizofrenia e l'epilessia.

C'è una convergenza genetica tra cognizione e disturbi del neurosviluppo: l'ha dimostrato, per la prima volta, uno studio condotto dai ricercatori della Duke-NUS Medical School (Duke-NUS) e dell'Imperial College di Londra (ICL), ora pubblicato su “Nature Neuroscience”. Anche se non si riesce ancora a spiegare questa correlazione, il risultato potrebbe aprire nuove prospettive per il trattamento di disturbi quali l'autismo, l'epilessia, la disabilità intellettiva e la schizofrenia, per i quali le risorse terapeutiche sono attualmente scarse.

Con il termine "cognizione" ci si riferisce a capacità quali la memoria, l'attenzione, la rapidità nell'elaborazione, il ragionamento e le funzioni esecutive. Le prestazioni in queste diverse capacità cambiano moltissimo tra individui, hanno un notevole grado di ereditabilità e sono poligeniche, cioè dipendono da diversi geni. Inoltre, si può fare una distinzione tra domini cognitivi, per esempio tra le cosiddette abilità cognitive cristallizzate, che dipendono dalla capacità di applicare conoscenze acquisite, e abilità cognitive fluide, come la capacità di stabilire nuove memorie o ragionare in situazioni nuove. Un dato importante è che queste apacità sono correlate positivamente: chi riesce bene in uno di questi domini, per esempio ha buona memoria, tende a farlo anche negli altri.

Una convergenza genetica tra cognizione e disturbi del neurosviluppo

Questi risultati, emersi dai test psicologici, sono in buon accordo con gli studi di genetica, che hanno dimostrato nei soggetti sani una sostanziale correlazione tra i geni legati alle diverse capacità cognitive. Nel caso dei soggetti con disturbi neurobiologici, invece, in cui i deficit delle funzioni cognitive rappresentano un insieme fondamentale di sintomi, i dati sono limitati.

Gli autori della ricerca hanno studiato, grazie a un nuovo sistema di analisi chiamato Systems Genetics, tutti i geni che sono attivi nelle cellule dell'ippocampo, una regione cerebrale che riveste un ruolo importante nella formazione e nel consolidamento della memoria. Hanno così identificando vari network di geni: uno in particolare, che coinvolge circa 150 geni, presente sia nei topi sia negli esseri umani, ha una notevole influenza sulle capacità cognitive generali.

Inoltre, hanno scoperto che questi geni sono già attivi appena dopo la nascita, il che rappresenta un indizio importante del loro ruolo nello sviluppo del sistema nervoso. Da un'analisi comparativa è poi emerso che circa un terzo dei geni del network è mutato in diversi disturbi del neurosviluppo.

Secondo gli autori, che hanno reso disponibili online i dati ottenuti, la prosecuzione naturale dello studio dovrebbe essere l'identificazione dei fattori di regolazione di questo network, che potrebbe consentire di sviluppare future strategie terapeutiche.

“I risultati del nostro studio sul cervello umano mostrano una correlazione tra geni legati alle capacità cognitive e geni legati a disturbi del neurosviluppo che finora non era mai stata evidenziata", ha spiegato Enrico Petretto, autore senior dell'articolo. “Riteniamo che studiare i network di geni nel cervello possa fornire indizi ulteriori circa le cause genetiche dei disturbi del neurosviluppo e delle malattie associate”.

lunedì 8 agosto 2016

Autismo, deficit cognitivi e schizofrenia

AUTISMO, DEFICIT COGNITIVI E SCHIZOFRENIA

Sono centinaia le mutazioni di geni che alterano il corretto funzionamento neuronale e che espongono al rischio di disturbi dello spettro autistico. Lo hanno confermato due nuovi studi basati sul sequenziamento genico di campioni prelevati da migliaia di soggetti autistici e loro familiari. Alcune mutazioni sono le stesse  identificate in soggetti con deficit cognitivi e schizofrenia.

Una serie di mutazioni genetiche che aumentano notevolmente il rischio di disturbi dello spettro autistico sono state identificate in due nuovi studi pubblicati su “Nature”.

I disturbi dello spettro autistico colpiscono una quota della popolazione generale variabile tra 3 e 6 individui su 10.000 e sono caratterizzati da una compromissione delle relazioni sociali, disturbi della comunicazione e comportamento stereotipato. Da decenni si cerca di completare il complesso mosaico delle mutazioni genetiche che determinano il rischio di insorgenza di questo disturbo. Finora, ne sono stati indentificati più di un centinaio: ciascuno di esse altera un particolare elemento che concorre al corretto sviluppo neurobiologico dell’individuo e della corretta funzionalità neurologica.

Le mutazioni genetiche a rischio autismo

Questi due ultimi studi hanno usato entrambi la tecnica di sequenziamento dell’esoma, cioè l’insieme dei geni che condificano per proteine, chiamati esoni.

Nel primo studio, Joseph Buxbaum del Mount Sinai Hospital di New York e colleghi hanno analizzato campioni di DNA di 3871 individui autistici e 9937 soggetti di controllo, identificando oltre 100 geni che probabilmente influenzano il rischio d'insorgenza del disturbo.

Oltre il 5 per cento dei soggetti autistici infatti mostra mutazioni de novo, cioè non ereditate dai genitori, che determinano una perdita di funzionalità di questi geni. Si ritiene che molti dei geni mutati siano importanti per la funzionalità neuronale, per la formazione delle connessioni tra neuroni, per la trasmissione dei segnali nervosi attraverso le sinapsi e infine per la regolazione dell'espressione genica.

Nel secondo studio, Michael Wigler del Cold Spring Harbor Laboratory a Cold Spring Harbor, nello Stato di NewYork
e colleghi hanno sequenziato gli esoni di più di 2500 famiglie, ciascuna delle quali con un figlio affetto da autismo, confrontando i profili genetici dei bambini autistici con quelli dei bambini non autistici.

Dall’analisi dei dati, gli autori hanno potuto stimare il contributo delle mutazioni all'incidenza dei disturbi dello spettro autistico: il 13 per cento delle mutazioni di senso (missense), cioè di quelle che determinano la sintesi di una proteina con un amminoacido mutato e quindi con una funzionalità non ottimale, contribuisce al 12 per cento delle diagnosi. Mentre il 43 per cento delle mutazioni de novo che rende il gene colpito non funzionale, determina il 9 per cento delle diagnosi.

Da rilevare che, come già emerso in studi passati, alcune mutazioni in grado di alterare l'espressione di un gene sono le stesse individuate per i deficit intellettivi e la schizofrenia. Ciò indica che i farmaci usati per questi disturbi potrebbero rivelarsi utili anche per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico. Credit Le Scienze

Bambino autistico durante la pet therapy, una delle terapie più efficaci per il miglioramento dei sintomi di questo disturbo (© AMELIE-BENOIST / BSIP/BSIP/Corbis)