lunedì 9 giugno 2014

La neurofisiologia da deficit di attenzione






Con la PET (Tomografia Emissione Positroni)




La sindrome ADHD fu individuata per la prima volta nel 1845 dal medico Heinrich Hoffman in un libro intitolato "The Story of Fidgety Philip", un’accurata descrizione di un bambino iperattivo, ma riconosciuta come un problema medico solo nel 1902 in seguito a una serie di conferenze tenute da Sir George F. Still per il Royal College of Physicians inglese, la sindrome da iperattività/deficit di attenzione (ADHD) è fra i problemi di salute mentale pediatrica.












L’ADHD consiste in un disordine dello sviluppo neuro psichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato da iperattività, impulsività, incapacità a concentrarsi che si manifesta generalmente prima dei 7 anni d’età. La sindrome è stata descritta clinicamente e definita nei criteri diagnostici e terapeutici soprattutto dagli psichiatri e pediatri statunitensi, sulla base di migliaia di pubblicazioni scientifiche, nel “Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders”, il manuale pubblicato dalla American Psychiatric Association utilizzato come referenza psichiatrica a livello internazionale (DSM-IV).














Sintomi e diagnosi

Secondo il DSM, l’ADHD può essere quindi definita come “una situazione/stato persistente di disattenzione e/o iperattività e impulsività più frequente e grave di quanto tipicamente si osservi in bambini di pari livello di sviluppo”. Questi sintomi finiscono con il causare uno stato di disagio e di incapacità superiore a quello tipico di bambini della stessa età e livello di sviluppo.
I sintomi chiave di questa condizione sono la disattenzione, l'iperattività e l’impulsività, presenti per almeno 6 mesi e comparsi prima dei sette anni di età.














I bambini con ADHD:

-         hanno difficoltà a completare qualsiasi attività che richieda concentrazione

-         sembrano non ascoltare nulla di quanto gli viene detto

-         sono eccessivamente vivaci, corrono o si arrampicano, saltano sulle sedie

-          distraggono molto facilmente

-         parlano in continuazione, rispondendo in modo irruento prima di ascoltare tutta la domanda

-         non riescono ad aspettare il proprio turno in coda o in un gruppo di lavoro

-         possono manifestare serie difficoltà di apprendimento che rischiano di farli restare indietro rispetto ai compagni di classe, con danni emotivi














La diagnosi di ADHD può essere formulata secondo il DSM in presenza di:

-         6 o più dei 9 sintomi di disattenzione

-         oppure di

-         6 o più dei 9 sintomi di iperattività\impulsività.

Utilizzando un criterio diagnostico più restrittivo, l’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-10) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, definisce la presenza di “disordine ipercinetico” quando sono compresenti sintomi di iperattività, di comportamenti impulsivi e di deficit di attenzione.

sindrome ADHD si può accompagnare, a seconda dei casi, lo sviluppo di altre forme di disagio: ansietà e depressione, disordini comportamentali, difficoltà nell’apprendimento, sviluppo di tic nervosi.













Le cause

Le cause che portano alla manifestazione della sindrome di ADHD non sono univoche, né ancora accertate completamente dai medici. Diverse ricerche identificano una certa familiarità nella presenza di ADHD, suggerendo una componente genetica nella sua trasmissione.
Alcuni studi vanno nella direzione di valutare gli effetti di alcool e fumo durante la gravidanza sullo sviluppo di ADHD. Da un punto di vista neurofisiologico, studi svolti su alcune aree del cervello dalla divisione di psichiatria pediatrica dei Servizi di salute mentale americani (NIMH), con tecniche di risonanza magnetica, Tac e con diversi tipi di tomografia hanno dimostrato che queste aree sono effettivamente più piccole in volume nei bambini con ADHD rispetto a quelli nei quali la sindrome non si è manifestata, cioè nei casi di controllo. Questo stesso studio indica che i parametri presi in considerazione sono normalizzati in bambini che sono sottoposti a trattamento rispetto a quelli che non subiscono alcun trattamento. Altri studi hanno invece evidenziato un deficit nella trasmissione dopaminergica.













Per quanto riguarda la possibile influenza di fattori ambientali, secondo una ricerca americana pubblicata sulla rivista Pediatrics, svolta su 2500 bambini, la TV e in particolare le ore trascorse quotidianamente dai bambini di fronte a essa dall’età di 0 fino ai sei anni influiscono significativamente sullo sviluppo di disordini dell’attenzione e iperattività. Secondo i ricercatori statunitensi non sarebbero i contenuti ma le immagini irreali e veloci di molti programmi ad alterare lo sviluppo del cervello.














Il trattamento

Il trattamento dell’ADHD può richiedere un approccio sia terapeutico, seguendo una terapia psico-dinamica, che farmacologico. Il farmaco più indicato dagli studi per il trattamento farmacologico è il metilfenidato (prodotto con il nome commerciale di Ritalin®), assieme a diversi tipi di anfetamine.
In ogni caso, l’approccio terapeutico ottimale deriva dalla capacità da parte dei medici e delle famiglie di riuscire a elaborare, nel corso di un follow-up prolungato, un corretto bilancio beneficio-rischio per lo sviluppo del bambino affetto da ADHD. E’ cioè determinante riuscire a distinguere se ai fini di questo sviluppo sia più favorevole un trattamento farmacologico prolungato con stimolanti oppure interventi terapeutici e comportamentali non farmacologici. 













Secondo gli NIH americani, tra il 70 e l’80 per cento dei bambini rispondono positivamente ai trattamenti, migliorando la propria capacità di concentrazione, di resa nell’apprendimento, di rapporto con gli altri bambini e con gli insegnanti, di controllo dei propri comportamenti impulsivi. Essenziale ai fini di un risultato positivo della terapia è un rapporto prolungato con lo psichiatra infantile, sia da parte del bambino che della famiglia, per sviluppare in modo concertato tecniche di gestione del comportamento.
Il ricorso al trattamento farmacologico, in ogni caso, dovrebbe essere il risultato di una attenta diagnosi, che si basa sull’esecuzione da parte del bambino di numerosi test, che permettono di valutare tutte le possibilità di ridurre al minimo il rischio del trattamento stesso e di stabilire l’appropriatezza terapeutica del farmaco.







lunedì 2 giugno 2014

La deprivazione affettiva riduce lo sviluppo cognitivo





La deprivazione affettiva riduce lo sviluppo cognitivo




Uno studio condotto in Romania mostra che i bambini allevati in istituto soffrono di una riduzione dello sviluppo sia della materia grigia sia della materia bianca del cervello. Il passaggio dall’istituzione a una famiglia affidataria consente però il recupero della materia bianca. I risultati dello studio hanno implicazioni ampie e riguardano anche bambini esposti ad abusi e all'abbandono




Uno stato di grave trascuratezza psicologica e fisica produce cambiamenti misurabili nel cervello dei bambini, che causano un minore sviluppo della materia grigia e di quella bianca, a cui peraltro può essere in buona parte posto rimedio con adeguati e tempestivi provvedimenti. A dimostrarlo è uno studio condotto al Children Hospital di Boston in cui i ricercatori hanno analizzato le scansioni cerebrali ottenute con risonanza magnetica di gruppi di bambini rumeni inseriti in un progetto di intervento precoce sull’infanzia abbandonata, volto a dare bambini allevati in orfanotrofi in affido a famiglie in grado di fornire un’assistenza di buona qualità.










"Troviamo un numero sempre più grande di prove del fatto che l'esposizione a situazioni avverse durante l'infanzia ha un effetto negativo sullo sviluppo del cervello," dice Margaret Sheridan, prima firmataria dell’articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” in cui è illustrato lo studio. "Le implicazioni sono ampie, non solo per i bambini che vivono in istituti, ma anche per i bambini esposti ad abusi e abbandono, alla violenza durante la guerra, alla povertà estrema e ad altre avversità."






Doctor Margaret Sheridan







Sheridan e colleghi hanno confrontato tre gruppi di bambini fra 8 e 11 anni, il primo dei quali era composto da bambini allevati in un istituto, il secondo da bambini che fra 6 e 9 anni avevano lasciato l’istituto per essere affidati a famiglie e il terzo da bambini che non erano mai stati istituzionalizzati, ovvero non avevano mai vissuto in istituto. Dalle analisi è risultato che i bambini con una storia di allevamento in istituto mostravano un volume della sostanza grigia del cervello significativamente minore rispetto a quello dei bambini mai istituzionalizzati. Per i soggetti del primo gruppo, tra l'altro, questa diminuzione di volume interessava anche la materia bianca, che invece è apparsa indistinguibile da quella del gruppo di controllo nei bambini dati in affido.






Risonanza magnetica nucleare






I ricercatori fanno notare che durante l'infanzia i picchi di crescita della materia grigia si verificano in periodi specifici, durante i quali l'ambiente può influenzare fortemente lo sviluppo cerebrale. La sostanza bianca, che è necessaria per formare connessioni nel cervello, cresce invece in maniera più lenta e regolare, rendendola verosimilmente più malleabile agli interventi di cura: "Abbiamo scoperto che la sostanza bianca, che nel cervello costituisce una sorta di autostrada dell'informazione, mostra qualche segno di recupero", osserva Sheridan.





Elettroencefalogramma su bimbi autistici






"I nostri studi cognitivi suggeriscono che ci possa essere un periodo delicato durante i primi due anni di vita in cui l'intervento dell’affido esercita l’effetto massimo sullo sviluppo cognitivo", osserva Charles Nelson, che ha partecipato alla ricerca. "Quanto più giovane è il bambino quando è dato in affido, tanto migliore sarà il risultato."
Secondo l'UNICEF, sono almeno otto milioni i bambini che nel mondo vivono in istituti, esposti al rischio di un grave abbandono fisico e psicologico. Nella maggior parte di questi contesti, infatti, il rapporto tra operatori e bambini è basso (nelle istituzioni rumene coinvolte nello studio era di uno a 12) e la cura fortemente irreggimentata.






Doctor Charles A. Nelson





Origini della Deprivazione Emotiva

1) La madre è fredda e non affettuosa. Non tiene in braccio il bambino e non manifesta il suo affetto con il contatto fisico.

2) Il genitore non dedica abbastanza tempo e attenzione al figlio. Sono pochi i momenti di gioco.

3) Il bambino non si sente amato, apprezzato, importante e speciale per il genitore.

4) Il bambino non percepisce il genitore come una guida preziosa e come un punto di riferimento a cui poter raccontare le proprie esperienze, paure ed emozioni. Si sente non capito e percepisce il genitore come non affidabile.

5) Il genitore non tranquillizza il figlio che impara a tranquillizzarsi da solo.


6) Il genitore non ascolta o fa fatica a sintonizzarsi con i vissuti del figlio