venerdì 24 marzo 2017

IL GENE DELL'OTTIMISMO SI APPRENDE!

Ottimismo, autostima e senso di controllo sulla propria vita sono correlati, almerno in prima battuta, con il tipo di variante posseduta del gene per un recettore dell'ossitocina.

Un gene strettamente collegato a tratti della personalità come l'ottimismo, l'autostima e il senso di controllo sulla propria vita è stato identificato da un gruppo di ricercatori dell'università della California a Los Angeles, che ne danno conto in un articolo pubblicato in anteprima on line sul sito dei Proceedings of the National Academy of Sciences.

"Sono alla ricerca di questo gene da alcuni anni, e non è il gene che mi aspettavo",ha osservato Shelley E. Taylor, che ha diretto lo studio. "Sapevo che ci doveva essere un gene per queste risorse psicologiche."

Il gene in questione codifica un recettore dell'ossitocina (OXTR) - un ormone che aumenta in risposta a stress ed è associato a buone abilità sociali - e in una specifica posizione può resentarsi in due versioni: una variante "A" (adenina) e una variante "G" (guanina). Diversi studi hanno suggerito che le persone con almeno una variante "A" abbiano una maggiore sensibilità allo stress, capacità sociali più povere e un maggior rischio di problemi di salute mentale.

I ricercatori sono ora riusciti ad appurare che le persone che in quella specifica posizione possiedono due "A" o una "A" e una "G" hanno livelli notevolmente più bassi di ottimismo, autostima e senso di padronanza del proprio destino rispetto alle persone con due "G".

"A volte le persone sono scettiche sul fatto che i geni possano far prevedere qualsiasi tipo di comportamento o lo stato psicologico. Penso che abbiamo dimostrato in modo conclusivo che lo fanno", ha detto la Taylor, che ha però sottolineato che ciò non significa affatto che lo determinino.

"Alcune persone pensano che i geni
siano il destino, che se si ha un gene specifico, allora si avrà un esito particolare. Non è assolutamente così. Questo gene è un fattore che influenza le risorse psicologiche e la depressione, ma c'è molto spazio per i fattori ambientali. Un buon sostegno durante l'infanzia, buone relazioni, amici e anche altri geni hanno tutti un ruolo nello sviluppo delle risorse psicologiche, e questi fattori svolgono un ruolo molto importante se le persone diventano depresse."

Inoltre, ha aggiunto la Taylor, "più geni si studiano, più ci si rende conto che molti fattori influenzano la loro espressione."

"L'espressione dei geni non è sempre stabile", spiega Shimon Saphire-Bernstein, primo firmatario dell'articolo. "Per caratteristiche fisiche come il colore degli occhi lo è, ma per la depressione potrebbe cambiare nel giro di una settimana. I geni sono solo uno di una serie di fattori che contribuiscono al comportamento, alla malattia e a disturbi come depressione ". Anche le persone con la variante "A" sono in grado di superare la depressione e gestire lo stress: "Non abbiamo trovato nulla - ha detto la Taylor - che interferisca con l'apprendimento delle competenze di coping", ossia con la possibilità di trarre vantaggio dalle tecniche psicoterapeutiche per avere un atteggiamento più ottimista, avere maggiore autostima e un più alto senso delle proprie capacità di affrontare eventi stressanti.

"All'inizio - ha scritto la Taylor - ritenevo che la biologia determinasse gran parte del comportamento; è stata così una sorpresa vedere come le relazioni sociali potessero chiaramente forgiare la nostra biologia di base, anche a livello di espressione genica". Credit Le Scienze

mercoledì 22 febbraio 2017

NEUROSCIENZE E DIDATTICA!

Sia pure con qualche approssimazione, è possibile affermare che poco più di cinquant’anni fa la mente e il comportamento umano erano ancora appannaggio esclusivo della filosofia e della psicologia, mentre si riteneva che la biologia e la medicina fossero in grado di fornire risposte circoscritte esclusivamente alla patologia, ai casi di malattie e alle lesioni del sistema nervoso…

Oggi, invece, la situazione è profondamente cambiata: guardiamo alla mente in modo nuovo, in quanto le neuroscienze hanno riassunto i metodi e i risultati di discipline diverse che vanno dalla psicologia cognitiva alla neurofisiologia e alla biologia molecolare; inoltre, le neuroscienze hanno messo a punto numerose tecniche e strategie che hanno consentito di inquadrare e conoscere molti aspetti dei rapporti tra sistema nervoso e processi mentali, sia dal punto di vista fisiologico che patologico!

L’enorme progresso che stiamo vivendo riguardo la conoscenza della struttura e del funzionamento del sistema nervoso e ai promettenti sviluppi nel trattamento delle malattie neurologiche e psichiatriche hanno fatto sì che, attualmente, le neuroscienze siano tra le discipline di punta in campo biologico e medico.

Ecco perché un docente che guarda la disabilità deve conoscere almeno L'ABC del cervello! La conoscenza consente di lanciare dei link tra Biologia, Medicina e Didattica avanzata! I seguenti schemi indicano sommariamente gli ambiti di competenza delle Neuroscienze!

domenica 9 ottobre 2016

LA GRAMMATICA È GIÀ SCRITTA NEL CERVELLO!

È come andare in bicicletta se non ci si  allena si perde l'equilibrio!
Individuati gli schemi di attività neurale che indicano le elaborazioni lessicali, grammaticali e di articolazione del linguaggio all'interno dell'area di Broca!

Uno studio effettuato presso la School of Medicine dell’Università della California a San Diego fornisce un interessante quadro di alcuni meccanismi di funzionamento della mente umana per quanto concerne l’elaborazione del linguaggio.

"Due profondi misteri permeano ancora le nostre conoscenze in questo campo: il primo riguarda il modo in cui i processi cognitivi superiori come il linguaggio sono integrati nel cervello; il secondo la natura di una delle regioni meglio conosciute della corteccia cerebrale: l'area del Broca”, ha esordito Ned T. Sahin, ricercatore del Dipartimento di psicologia della Harvard University spiegando i risultati della ricerca ora pubblicati sulla rivista “Science”.

Poiché il linguaggio complesso è esclusivo degli esseri umani, è assai difficile studiare i meccanismi neurali che ne sono alla base con procedure che siano al contempo efficaci e non invasive. I metodi di imaging del cervello come la risonanza magnetica funzionale, spesso utilizzati per rilevare l’attività neurale connessa a diversi compiti o competenze, rilevano l'attivazione di migliaia di milioni di neuroni insieme su un periodo di tempo piuttosto lungo.

Per documentare in che modo il cervello umano elabora la grammatica e produce le parole, i ricercatori hanno utilizzato una procedura denominata elettrofisiologia intracranica (Intra-Cranial Electrophysiology, o ICE), che ha consentito di distinguere spazialmente l'attività cerebrale collegata al linguaggio con un’accuratezza spaziale di circa un millimetro e temporale di circa un millisecondo.

"Abbiamo mostrato che i distinti processi linguistici sono elaborati all'interno di piccole regioni dell'area del Broca, separati nel tempo e parzialmente sovrapposti nello spazio”, ha continuato Sahin.

Più in particolare, i ricercatori hanno trovato gli schemi di attività neurale che indicano le elaborazioni lessicali, grammaticali e di articolazione del linguaggio, rispettivamente, circa 200, 320 e 450 millisecondi dopo la presentazione di una parola target. Inoltre, gli schemi di attivazione sono risultati identici per sostantivi e verbi e simili tra diverse persone.

"La prima evidenza che parti del cervello possono corrispondere a parti della mente fu la scoperta che i pazienti con un danno all'area del Broca erano incapaci di parlare ma potevano ugualmente pensare. A 150 anni dalla sua scoperta, il progresso nella comprensione del modo in cui l'area del Broca contribuisce al linguaggio è sconcertante”, ha spiegato Eric Halgren, professore dell'UCSD.

"Questi risultati suggeriscono che l'area del Broca consista in realtà di diverse parti sovrapposte che svolgono distinti passi di elaborazione in una 'coreografia' attentamente calibrata, una danza che potrebbe essere rimasta non rivelabile a causa del livello di risoluzione dei precedenti metodi.” credits Le scienze

mercoledì 5 ottobre 2016

SOSTEGNO ATTENTI ALLE DELEGHE!

SOSTEGNO ATTENTI ALLE DELEGHE!

Per operare altri tagli futuri sulla scuola si utilizza anche il metodo di fare delle analisi e dei rapporti, che possano rappresentare l’anticamera della proposta, della riforma e del cambiamento, che, guarda caso, è sempre basata su tagli e risparmi di spesa, e mai su risorse economiche aggiuntive.
Per esempio da un rapporto 2011  realizzato dalla Fondazione Agnelli, dall’Associazione Treellle e dalla Caritas Italiana, si è analizzato che il modello italiano dell’integrazione scolastica degli alunni diversamente abili o bisognosi di percorsi speciali ha fallito i suoi obiettivi, perché si baserebbe sul binomio imprescindibile studente disabile-insegnante di sostegno. Di qui la proposta, messa in atto in Trentino Alto Adige dal prof. Dario Ianes,  di convogliare quasi tutti i docenti di sostegno nell’insegnamento delle discipline e di destinarne alcuni alla formazione di gruppi consulenza per le scuole.
Si sta quindi pensando di abolire la figura del docente di sostegno specializzato, così come è quella che conosciamo e che sappiamo svolgere un prezioso lavoro nelle nostre scuole? Si è proprio così!
Si vorrebbe, attraverso una strana teoria evolutiva del docente di sostegno, sottrarre, agli alunni in stato di evidente svantaggio, il sostegno di potere avere un docente specializzato vicino a loro. Eppure il nostro sistema di sostegno scolastico e il nostro sistema di specializzazione sul sostegno sono un modello didattico e d’integrazione culturale che ci viene invidiato da tutti, forse costoso ma pienamente funzionale. Allora perché cambiarlo, perché fare evolvere la figura del docente di sostegno che svolge un servizio d’eccellenza con risultati ed obiettivi apprezzabili? Il sospetto che le ragioni della teoria evolutiva dei docenti di sostegno siano puramente economiche, e che tutto questo rappresenti l’anticamera dell’abolizione di questa figura, è un’opinione che sono in molti a pensare.
C’è chi pensa anche che l’anello mancante di questa strana teoria evolutiva del docente di sostegno, sia rappresentata dalla deformazione che stanno subendo i Bes nel nostro sistema scolastico. Quale sarebbe questa deformazione? I Bes, secondo il parere di molti docenti di sostegno, rappresentano la curvatura didattica tipica dell’insegnamento di sostegno, e quindi si vorrebbero obbligare tutti i docenti curricolari a divenire in modo evolutivo e del tutto innaturale anche docenti di sostegno.
Il rischio che si corre è quello che con l’alibi della scadente integrazione degli alunni diversamente abili, rilevata nel rapporto 2011, si voglia cogliere l’occasione per abolire delle figure specializzate al rapporto con tali alunni, sostituendoli nel tempo con docenti tutto fare, che mentre svolgono le loro lezioni di italiano, latino, matematica, fisica o inglese si occupano contemporaneamente dell’alunno autistico o paraplegico. Si tratta veramente di una strana teoria evolutiva che se non dovesse essere ben ponderata rischierebbe, veramente e senza alcun alibi, di riportarci all’anno zero per quanto riguarda l’integrazione e l’inclusione. Credit Tecnica della scuola L. Ficara

domenica 11 settembre 2016

DISLESSIA E COMUNICAZIONE CEREBRALE

Una scarsa comunicazione cerebrale all'origine della dislessia


Una scarsa comunicazione tra diverse are cerebrali deputate all'elaborazione del linguaggio sarebbe all'origine della dislessia. Lo afferma un nuovo studio basato su una serie di test linguistici su comprensione e ripetizione di fonemi, che smentisce l'ipotesi che il disturbo sia causato da una incapacità di sviluppare precise rappresentazioni delle unità fonetiche elementari tipiche di una lingua.

Le persone affette da dislessia, che rappresentano circa il 10 per cento della popolazione, hanno difficoltà di lettura, di elaborazione del linguaggio parlato e in definitiva di apprendimento, ma l'origine del disturbo non è nella difficoltà a codificare le informazioni fonetiche quanto piuttosto nel recuperarle una volta memorizzate. È questa la conclusione di uno studio pubblicato su “Science” a firma di Bart Boets dell’Università cattolica di Leuven, in Belgio.

Durante il processo di acquisizione di una nuova lingua ogni individuo deve imparare anzitutto l’insieme delle unità basilari di suono che essa utilizza, denominati fonemi. Il passo successivo consiste nell’imparare a raggruppare tutti i diversi modi in cui un dato fonema può essere pronunciato, distinguendo tra quelli molto simili, per esempio la “b” o la “d”.

Negli ultimi decenni, vari studi hanno portato a ipotizzare che le persone con dislessia non sviluppassero precise rappresentazioni fonetiche e che quindi non fossero in grado di riconoscere le  distinzioni più fini di una lingua. In questo modello, i dislessici avrebbero in sostanza una rappresentazione distorta dei fonemi, come se avessero appreso le parole da un vocabolario dove alcune macchie rendono indistinta l’ortografia delle parole.

Recentemente, alcuni ricercatori hanno sviluppato un modello diverso della dislessia, in cui le rappresentazioni fonetiche sarebbero intatte. A non funzionare correttamente sarebbe la capacità del cervello di accedere a esse.

Boets e colleghi hanno messo a confronto i due modelli utilizzando una tecnica di risonanza magnetica funzionale (fMRI) per catturare immagini in 3D dell’attività cerebrale di 23 soggetti adulti con dislessia e 22 soggetti del gruppo di controllo
mentre udivano la pronuncia di diversi suoni.

A ciascun partecipante era richiesto di ascoltare alcune parole senza senso, come successioni di sillabe come per esempio “ba-ba-ba-ba” seguite dalle stesse parole modificate in una consonante o in una vocale, come per esempio “da-da-da-da”, e di riferire quale cambiamento avessero percepito. Questo semplice test, secondo gli autori, permette di valutare la correttezza delle rappresentazioni dei fonemi da parte dei soggetti.

Analizzando i risultati, è emerso che l’accuratezza delle risposte dei soggetti dislessici non differiva sostanzialmente da quella dei soggetti normali, e lo stesso accadeva per i segnali neurali rilevati con la fMRI, indicando, secondo i ricercatori, che la loro rappresentazione fonetica è intatta. La caratteristica delle risposte influenzate dalla dislessia è invece la velocità della risposta, ritardata in media del 50 per cento rispetto ai soggetti normali.

Analizzando l’attività complessiva del cervello, gli autori hanno documentato una minore coordinazione del funzionamento di 13 aree cerebrali legate all’elaborazione dei fonemi di base con l’area di Broca, responsabile dell’elaborazione di alto livello del llnguaggio. Un’analisi più raffinata dei segnali rilevati ha mostrato che più era debole il coordinamento delle aree cerebrali, più erano lente le risposte dei soggetti dislessici.

La conclusione di Boets è colleghi è quindi che la dislessia rifletta una scarsa capacità di accedere all’informaizne sui fonemi invece che a una scarsità d’informazioni sui fonemi stessi. Credit Le Scienze

mercoledì 7 settembre 2016

Ippocampo, apprendimento e memoria

Ippocampo,  apprendimento e memoria

L'ippocampo è l'area del cervello che comanda il rilascio di ormoni che ci aiutano ad affrontare lo stress: aumentano il battito cardiaco e favoriscono l'adattamento. Ma l'ippocampo è anche centrale in due funzioni fondamentali del cervello: l'apprendimento e la memoria. Un ippocampo più grande si traduce quindi in migliori prestazioni scolastiche.

L'ippocampo nel cervello dei bambini a cui i genitori dedicano maggiori attenzioni è più grande rispetto a quello dei figli meno seguiti. L'intervista a Anna #Oliverio Ferraris: la primissima infanzia è un'età cruciale, ma il cervello continua a modificarsi fino a 20 anni.

I bimbi in età scolare le cui madri li hanno accuditi con affetto nella primissima infanzia, portano i segni visibili di queste attenzioni nel proprio cervello: il loro ippocampo è più grande rispetto a quello dei coetanei. L'ippocampo è un'area del cervello che ha un ruolo cruciale nella memoria e nell'apprendimento, ma anche nella gestione dello stress.

Che il rapporto con i genitori prime fasi di vita del bambino sia cruciale per uno sviluppo emotivo e cognitivo armonioso già si sapeva. Quello che si è riusciti a fare per la prima volta, in uno studio apparso sull'edizione online di Proceedings of the National Academy of Sciences e condotto da un team di psicologi infantili e neuroscienziati della Washington University School of Medicine di St. Louis , è quantificare il beneficio sul cervello dei piccoli dell'amore e delle cure ricevute.

#Joan Luby , professore di psichiatria infantile, e i coautori della ricerca hanno prima di tutto dovuto distinguere, in maniera sufficientemente oggettiva, i genitori più affettuosi e attenti da quelli che lo erano meno. Lo studio ha preso le mosse una decina di anni fa, quando Luby e colleghi hanno esaminato le interazioni tra bambini di età compresa tra 3 e 6 anni, alcuni dei quali con sintomi di depressione o con altri disturbi mentali, e un genitore, quasi sempre la mamma.

Mentre la mamma doveva eseguire un compito il bambino doveva aspettare. Come premio per l'attesa avrebbe potuto aprire un pacco regalo dall'aspetto attraente. La valutazione su quanto e come il genitore fosse in grado di sostenere e confortare il bambino in questa situazione stressante veniva fatta da un gruppo di osservatori esterni che non conosceva nulla né delle condizioni di salute del bambino né del temperamento del genitore.

Anni dopo 92 di quei bambini, ora di età compresa tra 7 e 10 anni, sono stati sottoposti a una tac cerebrale, che consente di avere un'immagine chiara del cervello e di misurare la grandezza dell'ippocampo. Quello che è emerso è che i bambini che non avevano sofferto di forme depressive e che erano allevati con maggiori attenzioni avevano un ippocampo del 10% più grande rispetto ai figli di madri meno affettuose.

Secondo Luby mentre nei bambini depressi era atteso un risultato del genere, perché il volume dell'ippocampo risulta più piccolo anche negli adulti con depressione, la vera sorpresa è nella differenza riscontrata tra bambini sani e legata esclusivamente alle cure parentali.

Perché questo risultato è così importante?

L'ippocampo è l'area del cervello che comanda il rilascio di ormoni che ci aiutano ad affrontare lo stress: aumentano il battito cardiaco e favoriscono l'adattamento. Ma l'ippocampo è anche centrale in due funzioni fondamentali del cervello: l'apprendimento e la memoria. Un ippocampo più grande si traduce quindi in migliori prestazioni scolastiche.

Cosa deve fare un genitore per assicurare al proprio figlio lo sviluppo migliore?

Come si declina, insomma, questa affettività che sembra essere così importante per lo sviluppo cerebrale del bambino? Risponde Anna Oliverio Ferraris , docente di Psicologia Evolutiva all'Università La Sapienza di Roma.

Ci sono altri studi recenti che dimostrano che i bambini maltrattati hanno un funzionamento cerebrale diverso, che può  avere effetti anche in adolescenza. Mi pare che questa ricerca vada nella stessa direzione. L'età prescolare è cruciale certo, ma non solo nel rapporto del bambino con la mamma, bensì con tutte le persone che stanno intorno al bambino e lo accudiscono: madre, padre, i nonni.

Cosa devono garantirgli queste figure?

Quello di cui un bambino ha bisogno: un clima caldo, affettivo, stimolante, partecipativo, dove il bambino sente che è importante per chi sta intorno a lui. Via via che cresce bisogna rispondere alle sue domande, dargli ascolto. Ma attenzione a evitare l'iperprotezione e, ovviamente, ogni forma di maltrattamento.

La violenza ma anche l'indifferenza?

Esistono forme più o meno gravi di maltrattamento, dirette o indirette. La violenza tra genitori è una forma di maltrattmento indiretta che mette il bambino in uno stato di allerta, lo spinge a non fidarsi degli adulti che lo circondano. Ma anche la trascuratezza è una forma di maltrattamento: abbandonare un bambino tre ore al giorno di fronte al televisore, per esempio. Un bambino ha bisogno di fare esperienze di prima mano, di muoversi, di giocare, il gioco è la sua vita e la sua terapia. La carenza di giochi spontanei e di movimento che caratterizza molti bambini di oggi, che fanno una vita troppo sedentaria, è una forma di trascuratezza dell'intera società.

Altri comportamenti da evitare?

Dobbiamo ricordarci che i bambini non sono adulti in miniatura. Il genitore che non gli parla, che va sempre di fretta e si limita  risolvere i problemi pratici ma non ha momenti per starci insieme, raccontargli delle storie, commette un errore. Quando i bambini sono piccoli bisogna trovare il tempo. Se una madre lavora è bene che ci sia anche un padre accudente, che dedichi del tempo al bambino.

Altre figure, come la baby sitter, non possono avere un ruolo?

Certo, ma siccome la mamma e il papà fanno comunque parte della sua vita, il bambino ha bisogno di sentire la loro attenzione perché lo valorizza e lo fa sentire importante rispetto agli altri. Il bambino sa di esser debole nei confronti della società, ma se è amato si sente forte.

E con i capricci come la mettiamo?

A volte per paura di sembrare indifferenti i genitori rischiano l'opposto: cedere su tutto.
Oltre all'affetto è altettanto importante che ci siano regole e coerenza, ai bambini fa molto bene la routine. Vanno soddisfatti i bisogni fondamentali: affetto, calore, cibo. I desideri possono essere soddisfatti qualche volta o rimandati nel tempo. Il bambino se c'è il clima giusto lo accetta. Magari protesta di fronte a certe regole ma gli dà sicurezza sentire che i genitori sanno cosa è bene per lui e sono coerenti.

Fino a che età le cure dei genitori hanno un effetto diretto sullo sviluppo dei figli?

Il cervello continua a crescere fino a 20 anni, probabilmente un recupero è sempre possibile, perché per tutto questo tempo c'è molta plasticità, il cervello è ancora suscettibile di cambiamenti.


venerdì 2 settembre 2016

CERVELLO E MAPPE FUNZIONALI

Come e dove il cervello categorizza oggetti e azioni

Le mappe funzionali del cervello rispondono a quelle concettuali della didattica! La nostra mente elabora migliaia di concetti, ma solo per alcuni – come le facce e i movimenti del corpo - esiste una specifica area cerebrale dedicata. La rappresentazione di tutti gli altri si estende sull'intera corteccia, con una distribuzione spaziale che riflette la gerarchia di relazioni semantiche che ciascuno di essi intrattiene con concetti affini

Una prima mappa spaziale della rappresentazione semantica di oggetti e azioni sulla superficie del cervello è stata realizzata da un gruppo di ricercatori dell'Università di Berkeley, in California, che spiegano come sono riusciti a ricostruirla in un articolo pubblicato sulla rivista “Neuron”.

Vari studi hanno indicato che alcune categorie di oggetti e di azioni sono rappresentate in specifiche aree cerebrali. Fra questi vi sono per esempio le facce, le parti del corpo e i loro movimenti.

Tuttavia, gli esseri umani percepiscono migliaia di categorie di oggetti e azioni e, "date le dimensioni ridotte del cervello umano - dice Alex Huth primo autore dell'articolo - sembra piuttosto irragionevole aspettarsi che ogni categoria sia rappresentata in una zona del cervello diversa". Un modo efficace, e plausibile, per la rappresentazione cerebrale di categorie di oggetti e di azioni – hanno quindi ipotizzato gli autori - potrebbe essere organizzarle in uno spazio semantico la cui topologia riflette la somiglianza semantica tra le categorie.

Per verificare questa ipotesi, hanno usato i dati sui livelli di attivazione del cervello (o per la precisione di singole piccole unità volumetriche, o voxel, della corteccia cerebrale) ottenuti applicando la Bold fMRI (che permette di valutare il consumo di ossigeno dei neuroni delle diverse aree) a un gruppo di soggetti mentre osservavano diverse ore di filmati contenenti numerose categorie di oggetti e di azioni che si presentano frequentemente nelle attività quotidiane.

I filmati sono stati poi analizzati dai ricercatori che vi hanno identificato 1364 categorie di oggetti e azioni di uso comune, di cui hanno definito le eventuali relazioni semantiche ricorrendo alla classificazione riportata dal lessico di WordNet. WordNet è un ampio database in cui nomi, verbi, aggettivi e avverbi sono raggruppati sulla base dell'affinità di significato affine, ma fra cui è possibile stabilire delle “gerarchie” concettuali (per esempio, una scena contenente un cane deve contenere un quadrupede e, analogamente, se qualcuno russa deve anche dormire). Le relazioni gerarchiche di WordNet hanno permesso di dedurre la presenza di altre 341 categorie di ordine superiore a quelle già individuate dai ricercatori.

A questo punto, attraverso una serie di procedimenti statistici, i ricercatori sono riusciti a definire un modello che indica i “pesi” che caratterizzano la risposta di ciascun voxel della corteccia cerebrale a ognuna delle 1705 categorie.

In questo modo i ricercatori hanno dimostrato che le categorie sono rappresentate, secondo specifici gradienti, su tutta la superficie della corteccia del cervello, sia visiva che non visiva, ma in modo tale che le categorie simili si trovino una accanto all'altra. In particolare, i ricercatori hanno trovato che questa organizzazione era comune a tutti i volontari testati.

"La scoperta delle caratteristiche spaziali che il cervello usa per rappresentare le informazioni ci aiuta a ricostruire le mappe funzionali sulla superficie corticale. Probabilmente il cervello usa meccanismi analoghi per mappare altri tipi di informazioni su tutta la superficie corticale, quindi il nostro approccio dovrebbe essere ampiamente applicabile anche ad altri settori di neuroscienze cognitive", ha osservato Gallant. Credit Le Scienze 

1~In A, struttura delle relazioni semantiche fra alcuni dei 1705 concetti considerati dai ricercatori I collegamenti indicano un rapporto di appartenenza: per esempio, un atleta è una persona. Ogni indicatore rappresenta un nome (cerchio) o verbo (quadrato). In B, il codice colore in 3D usato per rappresentare l'intensità della risposta dei voxel. In C, esempio di una risposta prevista dal modello degli autori di ciascun voxel sulla base delle relazioni semantiche che vi sono fra i diversi concetti. (Cortesia A.G.Huth / PNAS)


2~La proiezione  sulla corteccia cerebrale della distribuzione di varie categorie concettuali elaborata sulla base delle risposte fMRI dei singoli voxel in tre differenti soggetti. (Cortesia A. G: Huth et al. / Neuron)