Vedete che ci combina l'amigdala! Trattiamola bene altrimenti ci mette nei guai! È solo una mandorla nel sistema limbico! Ma spesso sequestra il cervello e impone i suoi comandi!
L’amigdala è la centralina del cervello che anticipa il dolore! (Non dimentichiamo che le amigdale sono 2 è la destra è più grossa)
I ricercatori dell’Università Vita-Salute San Raffaele, in uno studio pubblicato sulla rivista The Journal of Neuroscience, hanno mostrato che è l’amigdala, il centro neurale della paura e dell’ansia, a fare da “centralina” per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta.
Gli studiosi si sono concentrati sull’origine delle differenze individuali nell’avversione alle perdite, e, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, le hanno individuate in un complesso insieme di risposte cerebrali. E’ addirittura il volume dell’amigdala a spiegare le differenze tra i singoli individui nella propensione a cadere vittime di questa insidiosa trappola decisionale.
L’amigdala è una struttura cerebrale posta nella profondità di ciascuno dei due emisferi cerebrali, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, di riconoscerli e preparare l’organismo ad una risposta adeguata, ad esempio “combatti o scappa”. Prendere decisioni implica la capacità di prevedere le conseguenze positive e negative di ogni possibile scelta. Questo consente di soppesarle attentamente, per arrivare a selezionare quella che riteniamo più vantaggiosa.
La variabilità dei possibili risultati ha consentito di identificare le regioni cerebrali che, rispetto allo stato di riposo, aumentano o riducono la loro attività in maniera proporzionale ai possibili guadagni e perdite.
Il sistema dopaminergico, un insieme di strutture del cervello che si parlano tra loro utilizzando come mediatore la dopamina, si attiva quando anticipiamo i guadagni e si disattiva quando anticipiamo le perdite. Un altro sistema emotivo, centrato sull’amigdala, si attiva per le perdite e si disattiva per i guadagni.
Ma, a parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono generalmente più intense di quelle associate alle vincite, e l’entità di questa asimmetria, che varia da persona a persona, riflette la tendenza di ciascun individuo ad essere avverso alle perdite. Non solo: questa tendenza è anche fortemente collegata alle dimensioni dell’amigdala, ovvero è maggiore in chi ha un’amigdala più grande. Queste differenze, ovviamente, non sono visibili ad occhio nudo, ma emergono chiaramente con le sofisticate analisi condotte.
Oggi sappiamo che l’amigdala riconosce anche i possibili pericoli insiti nelle nostre stesse azioni e che la sua attivazione ci spinge più spesso di quanto sarebbe razionale, ad evitare di agire. Questo “freno” al comportamento ci può salvare la vita ma, se non è a sua volta tenuto sotto controllo dal cervello razionale, ci può impedire di cogliere le opportunità offerte dall’ambiente.
L’esperienza ci insegna che le persone sono tra loro molto diverse da questo punto di vista: i risultati di questo studio costituiscono quindi un punto di partenza per studiare il ruolo dei fattori genetici e delle esperienze di vita nell’influenzare, tra l’altro, la nostra propensione a correre rischi o, piuttosto, a stare sul sicuro.
Credit La Stampa
sabato 30 luglio 2016
CHE GROSSA AMIGDALA CHE HAI !
venerdì 22 luglio 2016
IL CERVELLO NON SCEGLIE! LA DOPAMINA LO FA PER NOI!
IL CERVELLO NON SCEGLIE! LA DOPAMINA LO FA PER NOI!
Il nostro cervello non sceglie! È motivato da un neurotrasmettitore chiamato dopamina! Questa specie di imprinting rinforzerà le scelte future condizionando il comportamento!
Quando facciamo una scelta, siamo portati a sopravvalutare i benefici che ne abbiamo ricavato per effetto di uno specifico meccanismo di rinforzo delle connessioni neurali, che avviene in seguito al rilascio del neurotrasmettitore dopamina. Un nuovo studio ha permesso di chiarire che le regioni cerebrali coinvolte in questo fenomeno sono il corpo striato e due diverse porzioni della substantia nigra.
Dove hai passato le vacanze, al mare o in montagna?” Chiunque debba rispondere a questa domanda, tenderà a ricordare gli aspetti positivi della scelta fatta, dimenticando magari che qualcosa è andato storto. Al contempo, tenderà a disconoscere i lati positivi dell’opzione che ha escluso, esagerandone gli inconvenienti. Questo fenomeno, che si manifesta quando pensiamo a una scelta fatta in passato, è detto “bias di supporto della scelta”.
Un nuovo studio condotto da un gruppo di ricercatori della Brown University e pubblicato sulla rivista "Neuron" ha ora scoperto che questo fenomeno è correlato a livello neurale a un processo fondamentale denominato “attribuzione del credito”, grazie al quale il nostro cervello rafforza solo i circuiti specifici che si sono attivati in un’azione che ha determinato una ricompensa, al fine di riuscire a ripeterla con maggiore probabilità.
Il modello sviluppato dagli autori è basato su una precedente ricerca sulla funzione del corpo striato, la regione del cervello che si attiva quando il soggetto valuta il valore della ricompensa di una scelta fatta in passato e delle alternative che sono state scartate.
“A moderare il processo decisionale interviene un meccanismo di questo tipo: una piccola porzione della substantia nigra, denominata pars compacta, rilascia dopamina nello striato per rafforzare le connessioni tra la corteccia e lo striato stesso”, ha spiegato Jeffrey Cockburn, primo autore dello studio. “Questo fa sì che le azioni ricompensate meglio abbiano maggiore probabilità di essere ripetute in futuro”.
Come il cervello si convince della bontà di una scelta
Ma in che modo la pars compacta rinforza proprio i circuiti legati alle scelte che hanno portato a una ricompensa? I ricercatori ipotizzano che nel meccanismo sia coinvolta un'altra parte della substantia nigra, la pars reticulata, il cui compito è rilevare quando le azioni scelte hanno dato un risultato positivo e, simultaneamente, amplificare lo specifico segnale dopaminergico di rinforzo prodotto dalla pars compacta.
“Quando la pars reticulata decide che i segnali di valutazione dello striato sono abbastanza forti da motivare un’azione, da essa partono i segnali verso le strutture a valle che permettono l’esecuzione dell’azione e verso il sistema dopaminergico della pars compacta, in modo che il segnale associato alla ricompensa venga amplificato”.
Da questo meccanismo di rinforzo delle connessioni neurali associate a una scelta effettuata in passato deriva il fatto che tendenzialmente il valore della ricompensa ottenuta sia sovrastimato rispetto alle altre opzioni: secondo lo studio, dunque, il bias di supporto della scelta non sarebbe altro che un sottoprodotto dell’attribuzione del credito.
Cockburn e colleghi hanno anche chiarito il contributo del DNA nel determinare in che misura una persona mostra il bias di supporto della scelta, sottoponendo 80 volontari a un test comportamentale e al contempo a un'analisi genetica.
I ricercatori hanno verificato in particolare la versione posseduta da ogni soggetto del gene DARPP-32, che determina il livello di sensibilità delle cellule dello striato all'azione di rinforzo della dopamina.
Una precedente ricerca ha mostrato che una particolare versione del gene predispone i soggetti all'apprendimento mediato dalla ricompensa, mentre un'altra versione li rende meno inclini a questo tipo di processo. Grazie al test comportamentale, gli autori hanno scoperto che i primi sono anche quelli in cui si mostra più chiaramente il bias di supporto della scelta, corroborando l'ipotesi che dipenda da un meccanismo neurologico di rinforzo mediato dalla dopamina.
Credit Le Scienze
lunedì 18 luglio 2016
SINDROME DI DOWN E RESVERATROLO
Resveratrolo, e sindrome di Down
13/07/2016
La disabilità intellettiva è tra le conseguenze più evidenti dell’alterazione cromosomica che caratterizza i soggetti con sindrome di Down. La presenza di una terza copia del cromosoma 21 riduce, in particolare, la capacità di generare nuove cellule nervose nell’area del cervello denominata ippocampo. Una ricerca attesta ora che utilizzando il resveratrolo, un polifenolo presente in un’ampia varietà di piante e frutti, tra cui l’uva rossa e quindi il vino, è possibile stimolare la formazione di nuovi neuroni. Lo studio, condotto dall’Istituto di biomembrane e bioenergetica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibbe-Cnr) di Bari, in collaborazione con il Dipartimento di scienze mediche di base, neuroscienze e organi di senso dell’Università di Bari, il Dipartimento di neuroscienze e tecnologie del cervello dell’Iit di Genova e l’Inserm di Parigi, è pubblicato sulla rivista Biochimica et Biophysica Acta-Molecular Basis of Disease.
“Con questo lavoro, eseguito su linee cellulari di un modello animale con sindrome di Down, dimostriamo che il resveratrolo è in grado di ripristinare la neurogenesi agendo a livello dei mitocondri”, spiega Rosa Anna Vacca, ricercatrice dell’Ibbe-Cnr e coordinatrice del lavoro. “In condizioni normali, i mitocondri forniscono l’energia necessaria per alimentare i diversi processi cellulari, tra cui la proliferazione e la corretta funzionalità dei neuroni, che risultano alterati nelle persone con sindrome di Down e vengono invece riportati a valori normali dal resveratrolo. Esistono migliaia di studi sugli effetti protettivi del resveratrolo in diverse malattie, da quelle metaboliche e neurodegenerative a quelle dell’apparato cardio-vascolare e nell’invecchiamento: è però la prima volta che questa molecola viene testata in sindrome di Down, attraverso un meccanismo che inoltre correla il deficit della funzionalità dei neuroni alla ridotta funzionalità mitocondriale”.
La ricerca conferma anche l’efficacia di un altro polifenolo di origine naturale, l’epigallocatechina-3-gallato (Egcg), estratto dal tè verde, nel riattivare il metabolismo energetico mitocondriale e la generazione di nuovi neuroni. “L’utilizzo di molecole di origine naturale, prive di effetti collaterali, rappresenta un’opportunità importante per migliorare il quadro clinico complessivo e la qualità della vita dei soggetti con sindrome di Down. In Spagna è stato appena portato a termine uno studio su 84 giovani adulti con sindrome di Down in cui si è osservato che il trattamento con Egcg potenzia gli effetti della riabilitazione cognitiva”, aggiunge Daniela Valenti (Ibbe-Cnr).
“Anche in Italia è in fase di organizzazione un trial clinico in cui, in collaborazione con il Dipartimento di medicina specialistica, diagnostica e sperimentale dell’Università di Bologna, si valuteranno gli effetti del resveratrolo e dell’Egcg, da soli e in combinazione, su un gruppo di persone con sindrome di Down. In uno studio pilota pubblicato lo scorso anno avevamo già riportato l’efficacia dell’utilizzo combinato, in un bambino con sindrome di Down di 10 anni, di Egcg con acidi grassi omega-3 nel ripristinare alterazioni critiche della sindrome senza alcun effetto collaterale”, conclude Rosa Anna Vacca. Credit C.N.R.
lunedì 11 luglio 2016
ANCHE LA COSCIENZA È ..... INCOSCIENTE!
Studiando numerosi casi sulla volontà cosciente gli scienziati si sono chiesti come si poteva fare per determinare se era o meno sempre presente durante un'azione. Nei cartoni animati è semplice. A un certo punto si accende una lampadina sulla testa del personaggio che, dopo aver guardato prima a destra, poi a sinistra, si precipita a compiere l'azione volontaria ideata.
L'uomo non ha lampadine che si accendono sopra la testa, ma i ricercatori possiedono ora gli strumenti per vedere il succedersi delle varie fasi di una azione: l'elettromiografia, che misura il movimento muscolare, e l'Eeg o elettroencefalogramma, che misura l'attività elettrica cerebrale.
È stato usando questi strumenti nell'analisi del movimento di un dito che Benjamin Libet, celebre fisiologo dell'Ucla di Los Angeles, ha capito, 20 anni fa, che circa
535 millisecondi prima del movimento del dito il cervello inizia a fare qualcosa di cui non abbiamo alcuna coscienza;
204 millisecondi prima che il dito si muova arriva la coscienza di voler muovere il dito;
86 millisecondi prima arriva la coscienza che il dito si muove (ma il dito è ancora fermo),
e infine si muove finalmente il dito.
Insomma, nel cervello il movimento di un dito viene innescato da quello che i ricercatori chiamano RP, o readiness potential (potenziale di prontezza) che si verifica 331 millisecondi prima della volontà cosciente di muoverlo.
In base a questo tipo di esperimenti, i ricercatori hanno dedotto che la volontà cosciente è un evento mentale causato da eventi precedenti e che nella realtà non innesca la decisione di fare un movimento volontario, ma è solo uno degli eventi di una cascata che alla fine porta al movimento.
I processi automatici
Tutto ciò è ancora più evidente nelle risposte automatiche, come premere l'acceleratore quando il semaforo diventa verde o frenare quando un'auto ci taglia la strada. Lì la reazione automatica ha luogo in 200-300 millisecondi e addirittura il movimento si verifica prima che la coscienza abbia preso nota dello stimolo. Eppure a posteriori siamo sicuri di aver voluto frenare. Sono più veloci della volontà cosciente anche i processi diventati automatici: un dattilografo digita 120 parole al minuto, cioè due parole al secondo.
Per digitare la frase "due parole al secondo" ci vogliono 2 secondi, quindi in 500 millisecondi si digita una parola. La digitazione, insomma, procede così veloce che non c'è spazio per la volontà cosciente, tanto che quando ci si accorge di aver fatto un errore, la frase è già finita. Lo stesso si verifica quando parliamo: la scelta dei vocaboli di solito non è cosciente, e non è cosciente neppure il tiro al volo del centravanti. Insomma, la volontà cosciente è la lumaca della situazione, arriva per ultima. Ma se non è la volontà, che cosa ci fa veramente agire?
La nostra firma
Secondo alcune ricerche, a farci agire in questi casi sarebbe direttamente l'inconscio. L'influenza dell'inconscio sulle azioni è stata dimostrata chiaramente nel 1996 studiando un gruppo di studenti universitari. Bastava fare un test in cui fossero presenti vocaboli tipici dell'invecchiamento come rugoso, brizzolato, pensionato, saggio e vecchio per indurre in questi studenti baldanzosi un passo rallentato rispetto a coetanei sottoposti a un test in cui non c'erano quei vocaboli.
Basterebbe quindi pensare a chi cammina lentamente per camminare lentamente. Così come basta pensare di vincere per aver maggiori probabilità di successo. «A meno che si agisca molto, molto lentamente e ci si pensi sopra così tanto da farsi venire mal di testa, si è inevitabilmente portati a fare molte cose che non sono state coscientemente valutate» dice Daniel Wegner, docente di psicologia a Harvard. Ma se la volontà non causa l'azione, a che serve? «È un segnale che assomiglia per molti versi a un'emozione: attraversa la mente e il corpo per darci la paternità delle nostre azioni» spiega Wegner. «Serve a segnare nella memoria le azioni che abbiamo identificato in questo modo.
A riconoscerle come nostre. Ci aiuta a distinguere fra le cose che stiamo facendo e tutte le altre cose che si verificano intorno. E ha una funzione chiave nel dominio della morale e del successo. La sensazione che siamo autori del nostro agire è la base su cui valutiamo se ci siamo comportati bene o male. Ci dice dove siamo e ci fa sentire l'emozione appropriata alla moralità dell'azione che stiamo facendo: colpa, fierezza e altre emozioni morali non ci attanaglierebbero tanto se non sentissimo che abbiamo voluto compiere le azioni».
sabato 9 luglio 2016
L'AMIGDALA E LE SCOPERTE DI LEDOUX
L'amigdala sequestra il cervello ed impone ancestrali comandi!
Il cervello elabora le risposte emotive in 12 millesimi di secondo; quelle razionali in un tempo doppio. Per questo le emozioni ci mettono nei guai.
Stava uscendo dalla chiesa addobbata di fiori; al braccio la donna appena sposata dopo un lungo corteggiamento. Le campane suonavano a festa, intorno c'erano parenti e amici; Gunny, americano cinquantenne, rideva spensierato. Poi lo scoppio, per il ritorno di fiamma di un'auto. Nonostante non indossasse la tuta mimetica ma l'abito scuro, e benché non fosse nell'umida foresta asiatica, Gunny si sentì afferrare dal terrore: e, come aveva fatto 25 anni prima in caso di imboscate dei Vietcong, sentendo nelle orecchie il rumore delle armi si buttò in una siepe. Giusto in tempo per capire che quella paura non era più attuale. Eppure l'emozione era stata tanto forte da farlo agire d'istinto, inconsciamente, senza pensare.
Automatismi
Le emozioni d'altronde scavalcano quasi sempre il cervello razionale. Lo invadono di sentimenti forti, danno determinazione e impulsività ai nostri pensieri, li agitano e li forzano. A chi non è capitato di fare un balzo di spavento per uno scherzo stupido, o di fare una scenata eccessiva a un parente perché era "di cattivo umore"? È in momenti come questi che le emozioni diventano incontrollabili.
Come mai?
Studiando il percorso delle informazioni dall’orecchio all'amigdala, Joseph LeDoux, neuroscienziato di New York, ha scoperto una scorciatoia delle emozioni, ereditata direttamente dai primi animali privi di corteccia (il luogo del pensiero razionale) e particolarmente utile alla sopravvivenza. Il rumore dello scoppio entrato nell'orecchio di Gunny era andato al talamo, ma da qui una parte dell’informazione era passata direttamente all'amigdala, una parte del cervello più antica, dove quel rumore era indissolubilmente legato alle emozioni vissute, agli scoppi, alle carneficine del Vietnam, tanto da far scattare immediatamente una reazione di difesa. Secondo i calcoli di LeDoux, per questa via il messaggio estremamente semplificato (grosso modo "scoppio=sparo=morte'') ci mette 12 millesimi di secondo a innescare la risposta di fuga. La metà del tempo necessario per il percorso completo, che passa per la corteccia e aggiunge le informazioni della ragione, del tipo "Non si vedono Vietcong, e neppure fucili", che richiedono 24 ml secondi per essere elaborate. E Gunny nel frattempo è già nel cespuglio.
Vita di relazione
Lì nell'amigdala sembrano esserci anche le spiegazioni di tante risposte inadeguate della vita di relazione. Ci sono i motivi che ci fanno decidere, già nei primi secondi di un neonato, se una persona ci piace oppure no; se una serata in compagnia andrà bene o male; se un dipendente da assumere fa o no al caso nostro. In un tempo di millisecondi non entra l'elaborazione ragionevole della corteccia e i suoi motivi logici e razionali. Le prime impressioni sono quelle ingannevoli dell'amigdala. E poiché l'amigdala sceglie in base al metodo associativo di elementi del presente con quelli del passato può succedere che l'antipatia istintiva provata verso una nuova conoscenza sia dovuta più al colore dei suoi capelli (rossi come quelli del burbero vicino della nonna memorizzati nell'infanzia) che a razionali motivi di sospetto. E quei ricordi dell'infanzia, superati e inconsci, ispirano comportamenti spesso immotivati.
Fonte Focus
IL LATO NASCOSTO DELLA MENTE!
Esempio n. 1 Una signora composta ed elegante esce dalla chiesa dove ha assistito al matrimonio di sua figlia. All'improvviso si mette a urlare come una forsennata e abbraccia il signore che stava salutando. Solo dopo "si accorge" di cosa le ha fatto compiere quel gesto inopportuno: la paura di un serpente intravisto con la coda dell'occhio. Serpente peraltro di gomma, portato da un nipotino birichino.
Esempio n. 2 Partita di calcio, mischia in area. Da una selva di gambe, il centravanti vede schizzare, velocissimo, davanti ai suoi piedi, un pallone. Non ha neppure il tempo di pensare a che cosa deve fare. Ma lo tocca. E fa gol!
Esempio n. 3. Il signor Rossi va a votare. Come sempre, fa con convinzione la croce sul simbolo del suo partito preferito. E’, convinto di avere fatto la scelta giusta, razionale. Non è vero. Se potesse leggere il suo inconscio scoprirebbe che ha votato quel partito solo per distinguersi dal padre, fedele votante del partito rivale. O che lo ha fatto spinto da un pregiudizio tipico, del suo ambiente, acquisito quando aveva 5 anni.
In tutte queste situazioni ad averci spinto ad agire non e stata la parte razionale cosciente della nostra mente, ma un lato nascosto, che sfugge al nostro controllo e che non sempre ci fa fare ciò che poi vorremmo aver fatto. Talvolta è un pregiudizio diffuso o un antico ricordo che agisce, senza che ce ne accorgiamo, sulle nostre scelte, talvolta un’emozione, capace di scavalcare qualsiasi ragionamento logico. In altri casi, dicono gli scienziati, l’inganno è ancora più clamoroso: siamo convinti di essere coscienti di azioni di cui, nel 90% dei casi, siamo solo attori.
Freud aveva ragione
I ricordi cancellati e l'inconscio condizionano la nostra vita e le nostre scelte apparentemente più coscienti: ecco perché le ultime ricerche danno ragione a Freud.
Il primo a teorizzare, alla fine dell'800, l'esistenza di una parte della mente che sfugge al nostro controllo razionale fu Freud: secondo il neurologo austriaco il nostro comportamento è dovuto a un guazzabuglio di emozioni, pulsioni e motivazioni legate a tracce lasciate nell'infanzia e diventate non coscienti. Ma buona parte dei neuroscienziati ha guardato con sospetto le idee di Freud perché non verificabili con il metodo sperimentale. Oggi però le neuroscienze stanno dimostrando che l'inconscio esiste e che Freud aveva ragione. Prendiamo per esempio la repressione: secondo Freud i ricordi indesiderati e spiacevoli possono essere deliberatamente dimenticati. Alla fine del secolo scorso Michael Anderson e Collin Green dell'University of Oregon hanno dimostrato che la repressione esiste, ed è molto frequente. In laboratorio, in condizioni controllate, hanno "imitato" la repressione dimostrando che se si cerca deliberatamente di dimenticare alcuni vocaboli, successivamente si ha difficoltà a ricordarli, anche se qualcuno ci promette denaro.
Moglie o mamma?
Se poi pensate che la scelta del partner sia dovuta a fattori contingenti, vi illudete. Anche in questo caso l'inconscio vi ha giocato uno scherzo. Vi ricordate il complesso di Edipo di Freud? Tutti i bambini, diceva, si innamorano del genitore dell'altro sesso. David Perrett Dell'University of St. Andrews, in Scozia, ha dimostrato che ad attirarci sessualmente da adulti sarebbero proprio i visi che più ci ricordano i nostri genitori quando li abbiamo conosciuti. Insomma, impareremmo che cosa cercare in un partner guardando mamma e papà durante l'infanzia. Sono solo alcuni esempi in cui Freud sembra aver trovato alleati anche al di fuori della psicanalisi. Ma la stessa psicanalisi ha rivisto profondamente il modo di intendere l'inconscio. Spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista che insegna a Roma: «Secondo Freud era un po' come la "cantina della mente": il magazzino in cui nascondiamo le cose spiacevoli, che non ci piace ricordare. Oggi, invece, anche per la psicanalisi è diventato una fucina di pensieri e di emozioni in cui le nostre esperienze sono rielaborate in continuazione». Un po' come accade con i ricordi, influenzati in continuazione da emozioni, associazioni affettive e dalla situazione in cui ci troviamo a ricordare. I più pensano che la memoria sia una specie di ripostiglio dove possono essere archiviati i ricordi richiamabili alla coscienza quando serve.
Fonte Focus
LE MEMORIE NON DICHIARATE
In realtà esistono particolari tipi di ricordi, detti "memorie implicite", di cui non siamo consapevoli, che influenzano fin dalla nascita lo sviluppo della personalità. Prima della maturazione dell'ippocampo, il cervello registra le abilità gestuali, le acquisizioni per condizionamento (se cadi, ti fai male) e forse anche nomi e significati degli oggetti soltanto come "abilità non consapevoli". Ma non è solo un problema di maturazione dell'ippocampo. Nel nostro database inaccessibile ci sono tutti i "ricordi" di quando non sapevamo ancora parlare e descrivere emozioni e stati d'animo. Harlene Hayne e Gabrielle Simcock, psicologhe Dell'University of Otago (Nuova Zelanda), sono convinte che anche se non si ricordano gli eventi della prima infanzia, essi sono ancora li. Quello che ci manca è il catalogatore per raggiungerli: il vocabolario. Le ricercatrici hanno fatto giocare alcuni bimbi con uno strumento complesso. Quando, un anno dopo, li hanno interrogati, i bambini hanno risposto usando il vocabolario di cui disponevano l'anno prima. «In un anno avevano acquisito un vocabolario molto più completo, ma non erano in grado di usarlo per descrivere l'esperienza dell'anno precedente» dice Hayne. Eppure il ricordo dell'esperienza era li: quando ai bambini fu mostrata una foto del gioco, erano in grado di dimostrare come ci avevano giocato. La loro abilità di ricordare era superiore alla loro capacità di parlarne. «Il linguaggio funziona come un sistema di catalogazione per la memoria» dice Hayne. «Le esperienze che precedono la possibilità di catalogarle con il linguaggio spariscono, perché non hanno indice. Il volume è nello scaffale, ma solo il caso lo fa trovare».
Ripercussioni
Buona parte di ciò che facciamo lo dobbiamo proprio alle memorie implicite. Spiega Alberto Oliverio, direttore dell'Istituto di Psicobiologia del Cnr: «Quando guidiamo l'auto, andiamo in bici o manipoliamo oggetti, in realtà usiamo una serie molto complessa di aggiustamenti motori senza rendercene conto». Anzi, li usiamo così bene proprio perché non ce ne rendiamo conto: se dovessimo comportarci al volante come alla prima lezione di guida (adesso metto in folle; accendo il motore; metto la freccia; inserisco la prima e schiaccio l'acceleratore) il traffico sarebbe lento e faremmo più incidenti. Abbiamo imparato davvero qualcosa quando dimentichiamo di conoscerla. Ma l'inconscio agisce ancora più profondamente.
Autoinganno
Dice Oliverio: «A volte estendiamo alcune caratteristiche di una persona che ci è simpatica o antipatica ad altre convinti inconsciamente che alcuni tratti somatici siano tipici della simpatia». Forse è proprio per questo che la prima impressione, "a pelle", ci influenza più di quelle successive. Per quanto ci riguarda, invece, amiamo idealizzarci. Se un attore, alla fine di un monologo, viene fischiato, può dare la colpa alla sua cattiva recitazione o all'ignoranza del pubblico. La prima ipotesi è razionale ma dolorosa. La seconda, non fa soffrire ma nega la realtà. Di noi ci piace pensare che siamo buoni, bravi, onesti. L'inconscio però sa la verità. «La coscienza è una facciata per ingannare gli altri e noi stessi. La verità è nell'inconscio» dice Robert Trivers della Rutgers University (Usa). «L'autoinganno ha una sua utilità: se riesci a convincerti che sei il migliore, bluffi meglio. Mentre se conosci le tue debolezze, le condizioni competitive ti mettono in difficoltà. Insomma, meglio credere di essere i migliori, anche se non è vero».
I meccanismi di difesa
E se i meccanismi di difesa individuati da Sigmund Freud (repressione dei ricordi sgraditi ecc.) fossero causati da problemi della corteccia cerebrale destra? Lo sostiene V S. Ramachandran, docente di neuroscienze a San Diego, che ha studiato pazienti che rifiutano di accettare i sintomi di paralisi degli arti dovute a lesioni all'emisfero sinistro. Sulla sedia a rotelle sono convinti di muoversi a loro piacere, mentre conservano la coscienza di altri mali non neurologici.
Secondo Ramachandran, infatti, l'emisfero sinistro è "conservatore", incorpora ogni nuovo dato in modo da avere una visione del mondo coerente coi ricordi già immagazzinati ed esclude i dati minacciosi. L'emisfero destro invece rileva tutte le incongruenze e costringe il sinistro a rivedere il proprio modello di realtà. Ma se l'emisfero destro è danneggiato non si possono vedere le incongruenze. Questo capita non solo ai pazienti di Ramachandran, ma anche ai nevrotici.
I Lapsus
Anche quando il ricordo sembra perfettamente cosciente non corrisponde mai a ciò che è veramente successo, perché è influenzato da variabili emotive. Lo dimostra l'esperimento del foulard di Edouard Claparède, psicologo svizzero che all'inizio del '900 fece interrompere una lezione per 20 secondi da un disturbatore con un foulard bianco e marrone. Foulard che nelle descrizioni dei testimoni divenne rosso, come "deve" essere un foulard rivoluzionario. L'inconscio gioca scherzi anche con lapsus e atti mancati nei quali, senza volerlo, diciamo o facciamo ciò che volevamo nascondere. «Un mio paziente perdeva sempre la carta d'identità nei periodi di crisi» dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista. Un altro, che in seduta non riusciva a raccontare di sé, dimenticava da me l'agenda o le chiavi di casa, come a dire che una parte di lui era disponibile a farsi conoscere". Tutte "verità" che superano il controllo della coscienza.
Fonte Focus